Motus
di Loreenza Salamon
Introduzione a Selvatica 2024

 

Pittore e scultore, Gianni Lucchesi propone opere in cui il linguaggio è in equilibrio fra leggerezza e grevità, dentro e fuori, figurazione e decostruzione. Dipinti e sculture che mostrano il continuo passaggio della mente fra azioni lievi e intense, capaci di simulare il viaggio introspettivo che è al centro del codice creativo dell’artista toscano.
Vuoto e abisso sono elementi integranti della struttura compositiva di tutte le sue opere, un palcoscenico dove si muovono figure umane e animali, talvolta immobili di fronte alla propria solitudine, tal altra in movimento, in preda alle proprie emozioni.  Simile all’uso delle pause nello spartito musicale, dove l’assenza da’ valore all’essere, al suono.
Basti pensare alle basi delle sue sculture che pongono solitarie figure in cima a vertiginosi baratri, metafore della vita. Figure che affrontano precipizi, simbolo delle grandi domande della vita, resi concreti dai massi su cui poggiano. 
Non sembra esserci molta differenza fra le opere in cui i protagonisti sono gli uomini o gli animali. In entrambe l’artista cerca con determinazione, quasi ostinazione, una sincera rappresentazione dell’essenza del nostro vivere attraverso il racconto delle emozioni primarie che animano le nostre vite. Emozioni fondamentali delle nostre esistenze, quelle che ci spingono ad agire e reagire e quindi ad evolvere. Come ci ricorda l’etimologia della parola “emozione” che è da ricondursi al latino emovère letteralmente portare fuori, smuovere.
Nelle teatrali scenografie delle opere di Gianni Lucchesi, rese ancora più efficaci dalla collaborazione con l’architetto Julia Caracciolo, si riconoscono la paura che permette di percepire il pericolo, emozione fondamentale per difenderci da predatori e ostacoli di ogni genere; la rabbia che nasce da una frustrazione ed è la tipica reazione alle ingiustizie e nell’affrontarle le si possa superare; la tristezza che affiora di fronte a una perdita e costringe a fermarsi, a riflettere al fine di cicatrizzare le proprie ferite e ripartire.
Ed ecco che gli animali sono rappresentati con le orecchie riverse, nell’atto di captare la tensione che precede un attacco, pronti a balzare, fuggire, liberarsi dai propri predatori. Oppure vi sono uomini immobili, quasi a volersi mimetizzare, congelati nelle loro paure o in pose introspettive pronti a affrontare la vita con tutte le sue domande ed incertezze, a risolvere i grandi dubbi esistenziali.
Emozioni che l’artista sa riconoscere e mettere in scena attraverso dipinti e sculture, grazie alla sua curiosità e cultura e un linguaggio artistico efficace ed identitario.
Abile nel sintetizzare con pochi gesti sulla tela i suoi obiettivi, così come integrare pochi e sagaci elementi scultorei delle composizioni anche contenute nelle dimensioni, ma non per questo meno esplicative. Quando le dimensioni si espandono il tratto rimane essenziale, ma basi o contenitori diventano luogo per esprimere concetti più espliciti ed articolati, come nella svettante colonna presentata a Milano, prima, e a Genova, dopo, in cui l’opera era fortemente caratterizzata da elementi geometrici e matematici studiati secondo la sequenza aurea di Fibonacci. Una scultura di tredici metri, costituita da dodici cubi sovrapposti uno sopra l’altro con una leggera rotazione scandita secondo la regola del grande scienziato pisano. Inoltre ogni elemento, in cemento, era graffiato con gli elementi che rappresentano l’infinito, secondo il codice individuato dal filosofo Giordano Bruno. Una serie di citazioni volte a dare forma ai concetti di rivoluzione ed evoluzione – due parti di uno stesso processo di sviluppo -, cari all’artista.
Anche nei dipinti i temi richiamano uno studio psicologico incessante: sia che si tratti di figure che si muovono spaesate o quando sembrano muoversi verso un obiettivo certo. Sia che siano solitarie avvolte da un vuoto che li accoglie e protegge; e ancora quando da’ forma a mandrie di cervi in fuga o che brulicano e nutrono anima e corpo. Ogni opera esprime mondi ed emozioni diverse, rese leggibili da un tratto figurativo sintetico ed essenziale, sempre comprensibile.
L’animale prediletto e più rappresentato da Gianni Lucchesi è il cervo, che con il rinnovarsi del suo palco – le corna – da sempre è metafora degli artisti per indicare il rinnovamento. L’unione tra le forze superiori e quelle inferiori, quelle eterne e quelle terrene. Animale che sin dal Rinascimento, – fra i molti artisti che lo hanno ritratto anche Albrecht Dürer – assume un valore simbolico legato alla longevità.  Non sarà quindi un caso che sia presente nei dipinti su tela, realizzati prevalentemente con bitume e nelle installazioni tridimensionali. Non è un caso la scelta del bitume, miscela in uso in mano umana dal periodo medio paleolitico – circa 42.000 anni fa -.
È così che prendono posto un cervo impettito sulla superficie immacolatamente bianca che l’artista rende ancora più maestoso sottolineandolo con un contorno marcato e la sua ombra.
Ma vi sono anche branchi che si muovono in massa per cercare cibo o per fuggire da un pericolo. Tutti realizzati con la predominanza del colore della terra: solida, corposa, tipico della sua tavolozza anche quando scolpisce.
Ognuno reso nella sua riconosciuta virilità, eleganza e grazia sia quando è fermo sia quando è in corsa.
La varietà di materiali usati dall’artista toscano, sia per le tele che per le sculture, gli permettono un’ampia resa. Il bitume rustico, il ferro greve, il marmo solido, il legno caldo, la ceramica che prende forma attraverso una sapiente manualità. Il bitume, il cui uso risale all’antica Mesopotamia, si presenta con un colore neutro, fra il nero e il seppia e permette sfumature di cui Gianni Lucchesi sa servirsi. Il ferro, fra i più antichi materiali della nostra storia, utile all’evoluzione dell’uomo in epoca preistorica, da tempo immemorabile è usato in arte per realizzare opere eterne. Così come il marmo che l’artista sa scegliere nelle cave che da sempre appartengono alla sua terra natale. Non disdegna legno, terrecotte, ceramica il cui calore e plasticità gli permette di dare vita a opere che ci raccontano dei suoi viaggi, reali e introspettivi.
Materiali che conosce e sa combinare in modo da beneficiare dei loro contrasti, bianco e nero, chiaro e scuro, leggero e solido, diventando così cornice, supporto, arena dei suoi racconti visivi.

 

Gianni Lucchesi. Houston, che sfortuna!
Alessandra Redaelli

L’animale è solo sulla superficie bianca, irregolare, resa scabra da una serie di piccoli crateri. Il buio, al di là dell’orizzonte, possiede un’assolutezza inappellabile. E’ un buio siderale, primitivo. Prima dell’ordine e anche del caos. Eppure nelle orecchie alzate a captare anche il minimo rumore e nel balzo deciso, l’animale dà l’idea di sapere esattamente quello che sta facendo, di avere un obiettivo.
Il nuovo progetto di Gianni Lucchesi nasce – come del resto tutta la sua produzione – da un mirabile mix di sinapsi e di emozione. Il suo lavoro agisce così: colpisce all’unisono cuore e cervello senza lasciare scampo, come se lui avesse trovato la formula perfetta per dare un’anima al concettuale.
Una lepre sulla Luna è quasi un ossimoro. Come “l’incontro casuale, su un tavolo operatorio, tra una macchina da cucire e un ombrello”, per citare Lautréamont. Oppure è poesia.
Quando Lucchesi ascolta per la prima volta La lepre, del cantautore Lucio Corsi, la sua immaginazione scatta in più direzioni. Una è quella dell’incanto: la volpe e il Piccolo Principe. L’altra è quella dello sberleffo: “Houston, che sfortuna!”, canta Corsi, “siamo arrivati tardi, c’è una lepre sulla Luna”, e subito ecco nella nostra testa formarsi il viso dell’astronauta affacciato all’oblò, lo sguardo attonito sull’animale che – nel balzo – gli mostra dispettoso le terga. E in un attimo lui capisce che tutto quel suo essere preciso, organizzato, razionale, con il suo computer pieno di calcoli rigorosissimi, non è servito a niente. La lepre, con un balzo, è arrivata prima.
Da sempre l’indagine di Gianni Lucchesi verte intorno al nostro sentire e al nostro non (voler) sentire, al guardarsi dentro e al guardare fuori. Fin da quando si muoveva nell’ambito di un astratto lirico, emozionante, dove gli interior enviroments – i paesaggi interiori – si facevano forma attraverso giustapposizioni, sfioramenti della materia, contrasti di colore mai casuali ma fortemente simbolici, in un percorso che se aveva a che fare con una professoressa delle medie illuminata (la quale aveva l’abitudine di chiedere ai suoi studenti delle composizioni astratte per dare un’interpretazione emotiva dei testi letti in classe), non si distanziava tanto dalla filosofia di Mark Rothko, che predicava e praticava una comunicazione diretta degli stati emotivi allo spettatore attraverso la spoliazione dell’opera da qualunque dettaglio potesse distrarlo. Anche la passione per le grandi masse di ferro di scarto, serpenti immensi prodotti nel momento in cui il meccanismo dell’altoforno si inceppa e destinati alla distruzione, segue quella strada espressiva. I grovigli giganteschi, come mostri apocalittici, avvolti in spire e guizzi, diventavano nelle sue mani anime ricercanti, entità in dialogo, benedette alle estremità da una spolverata d’oro che ne illuminava lo spazio delle possibilità.
E’ la fascinazione per l’alchimia e per tutti i materiali capaci di un potere trasformativo a portarlo verso il ferro, così potente nella sua natura primordiale di sostanza meteoritica: dono del cielo e degli dei offerto all’uomo perché possa lavorare la terra, trasformarla, farla propria, e nel frattempo trasformarsi lui, migliorare e crescere. Naturalmente anche l’oro, dunque, finendo per innamorarsi – e farne la sua cifra – del contrasto tra luce e ombra, liscio e scabro. E sempre, su tutto, quella capacità di donare all’informe la forma dell’emozione, quella che va a fondo nello stomaco e ci fa guardare i serpenti di ferro con il cuore che per un attimo sobbalza, molto prima di capire il perché, molto prima di leggere titoli, didascalie, spiegazioni.
Poi nella vita di Gianni Lucchesi accade qualcosa. Uno di quegli eventi terribili e illuminanti che ribaltano le prospettive. Un incendio distrugge parte delle sue opere, molti oggetti a lui cari. Ma il vuoto, si sa, è fatto per riempirsi. E all’improvviso il suo linguaggio muta: si fa figurativo.
Il ribaltamento, però, si rivela duplice: andare a costruire forme leggibili per qualche motivo lo costringe a cambiare occhiali, a modificare le letture. Ora il suo racconto non guarda più solo dentro, ma anche fuori.
Le relazioni con gli altri e con l’ambiente sono il tema su cui si muovono le sue figure, piccole ma definite nel dettaglio dell’abito. E l’abito è quello che si indossa per andare a fare un lavoro “serio”, magari dietro una scrivania, immersi dentro una normalità dove l’adeguatezza sfiora i limiti dell’alienazione. Piccoli personaggi che sono uomo in quanto umanità, proprio come l’Everyman protagonista dell’omonimo romanzo allegorico scritto in Inghilterra nella seconda metà del Quattrocento, dove il protagonista si trova ad avere a che fare con la Morte e con personaggi che si chiamano Conoscenza, Forza o magari Buone Azioni. Un’umanità replicante in cui risuonano echi non lontani dalla poetica di un artista come Antony Gormley.
Lui, quell’Everyman in giacca e cravatta che Lucchesi ci dona, racconta i propri conflitti interiori e lo sgomento del fuori, dell’altro e dell’oltre. Magari punta una pistola contro la sua stessa immagine sdoppiata; cerca pace in stanze claustrofobiche; si sporge in bilico su abissi profondi e insondabili come un trauma rimosso; gioca spensieratamente alla cavallina con se stesso – così incongrua e inquietante con quell’abbigliamento addosso – sull’estremità di trampolini che lo condurranno inevitabilmente all’annientamento; oppure punta (ancora) una pistola verso i riflessi infiniti di sé che gli rimanda l’angoscioso gioco delle pareti frontali specchianti, forse protagonista di un thriller distopico. Immagini nitidissime, pulite e fulminanti come un verso di Ungaretti.
Non c’è giudizio né lezione morale, nella narrazione dell’artista: piuttosto la fotografia di un disagio condotta sempre con lo sguardo alla bellezza, alla purezza delle forme, ai materiali che svettano come i megaliti di Stonehenge per accogliere il nostro sguardo dentro spazi caldi, su superfici vivide, respiranti, a tratti scabre, tagliate da una luce minuziosamente studiata che sfonda le aperture, affila gli spigoli, accarezza le curve e allunga le ombre in una sorta di eterno crepuscolo caravaggesco.
L’imminenza del disastro – quando lo sparo sta per esplodere, o il nostro piccolo uomo sta per perdere l’equilibrio e farsi ingoiare dalla voragine, o, ancora, quando i ballerini di tango, nel vortice sensuale della danza, stanno per essere precipitati oltre il limite di quell’esigua pista da ballo – non ci comunica angoscia ma un senso anticipatore di attesa, una sorta di perversa aspettativa.

E qui ecco la chiave.

Che cosa ha fatto, alla fine, l’uomo di quel ferro meteoritico piovuto dal cielo per permettergli di lavorare la terra? Cosa ha fatto della sua intelligenza, della sua evoluzione, delle tecnologie? Cosa ha fatto del fuoco di Prometeo?
Lucchesi, l’abbiamo detto, non dà lezioni né risposte. Indica. Al massimo pone qualche domanda.
Ma le domande sono di quelle che bruciano.
Il ballo sul limite della voragine così come il gioco della cavallina sull’orlo dell’abisso sono il racconto di un’umanità perduta dentro se stessa, troppo occupata a osservare il mondo con gli occhi bendati per rendersi contro di dove il suo fare la stia portando. Il golfista, solo, si china sulla pallina al centro di una superficie annichilita, distrutta, inequivocabilmente attraversata da qualcosa di inemendabile, fingendo che intorno a lui ci sia un prato verde, curato, bandierine, altri uomini vestiti di bianco.
E’ una cecità che ha il sapore della negazione, della rimozione, ancora più lampante quando si guarda come si muove, sulla stessa superficie bruciata, il branco dei cervi.
Fedele a un’economia del racconto che si accompagna al minimalismo cromatico, Lucchesi ha scelto a lungo un solo animale, il cervo appunto, per fare da contraltare alla figura umana. Maestoso, inafferrabile, intriso di simbologie magiche di rinascita legate al rinnovarsi periodico delle corna e, proprio in virtù delle corna, tramite di comunicazione tra la terra e il cielo, il cervo incarna per l’artista l’istinto puro e intatto. Quello che sa. Mentre l’uomo si perde nella sua illusione di felicità, aggrappandosi a una sopravvivenza impossibile, l’animale forma intorno a sé il branco e cerca una via di fuga.
Quello che manca, dunque, all’uomo è l’istinto, la sicurezza di un atto che non possa prevedere decisione o ragionamento. L’anima selvaggia, soffocata da una razionalità travestita da certezza. Ed è forse per questo, mi azzardo a supporre, che le piccole figure di Gianni Lucchesi sono quasi sempre uomini, maschi, e rarissimamente donne. La donna possiede in sé, nella sua natura riproduttiva e così profondamente legata ai cicli del corpo, una potenzialità istintuale e selvaggia che è difficile spegnere completamente.
La lepre – declinata al femminile, ma di un genere che non si può definire, visto che non ha corna a renderne la lettura inequivocabile – arriva a completare un percorso lineare e precisissimo: l’istinto infallibile si tinge di poesia e diventa qui immaginazione creativa, capacità di sognare.
Se nei grandi dipinti a bitume l’artista ci mette di fronte alle differenti dinamiche dei gruppi degli umani e dei cervi – gli uni sparsi, isolati, persi nei loro ragionamenti astratti, al massimo raggruppati in sparuti nuclei familiari, o in coppie, ma chiusi in monadi impermeabili l’una all’altra; gli altri coesi, certi nel loro cammino – la lepre diventa protagonista di un gesto rivoluzionario, titanico, simbolo dei miracoli che a volte illuminano di una luce altra la realtà, spalancando improvvisamente le possibilità. Lei, con un balzo, salta sulla Luna.
La lepre ha capito che il pianeta sta implodendo, che la sua felicità non abita più lì. E allora va via, altrove. Non pensa a come arrivarci, a che cosa si lascia alle spalle, a come si nutrirà e nemmeno a come respirerà. Il suo istinto le ha detto di andare, e lei va.
Una Luna si fa dunque scenario perfetto per quel delizioso gioco che Gianni Lucchesi ama fare con le ombre, esaltato dalle luci nelle sculture e dall’uso sapientissimo del bitume nei dipinti. Quelle sagome strane, che sono noi ma non lo sono mai del tutto, attestati di esistenza e di consistenza (pensate al povero Peter Pan come patisce quando perde la sua ombra), lati oscuri, abissi inconsci, istinti, compagni inseparabili, trovano la loro apoteosi sul satellite che brilla di luce altrui e che sull’ombra ha costruito i suoi miti e la sua poesia.
Lì, affacciato verso questo orizzonte candido perso nel nero più nero, a seguire i balzi danzati di una lepre finalmente felice, c’è lui, l’uomo che guarda dall’oblò. Possiamo immaginarcelo in giacca e cravatta, come gli altri, e forse, se per una volta indaghiamo la sua storia, scopriamo che è un giovane con tante idee e con troppi soldi. Forse aveva pensato che, rovinato un pianeta, se ne poteva facilmente conquistare un altro, così come si butta un’auto vecchia. Ha messo un po’ di amici sopra un razzo ed è andato lassù, alla conquista della Luna; immaginandosela già, magari, con grandi strutture pressurizzate dove poter vivere, lavorare, andare al ristorante e fare shopping. Può darsi che abbia già trovato il modo di smaltire i rifiuti. Ma c’è tempo, pensa.

Poi vede quel balzo leggero, la vibrazione della coda. Quasi ha la sensazione che l’animale si volti verso di lui, prima di sparire dietro una duna. E di colpo capisce che no, non si può più fare. Non si può consumare tutto. Forse

Signum 
Sotto il selciato c’è (ancora) la spiaggia?
Nicolas Martino

Sotto il selciato c’è (ancora) la spiaggia? In questa frase che trasforma in interrogazione uno degli slogan più famosi del Maggio parigino, sembra essere contenuta la chiave di volta del “segno” impresso da Gianni Lucchesi all’interno della Chiesa della Spina a Pisa. Se, infatti, quelle giornate del Maggio annunciavano un nuovo mondo a venire carico di promesse, in realtà segnavano anche, e forse soprattutto, il tramonto della civiltà moderna e quindi la fine di una “percezione” della realtà che aveva messo al centro l’uomo e il suo progetto sul mondo e sulla natura.

È possibile, questo voglio dire, che il Sessantotto abbia segnato la fine di quella che abbiamo chiamato Modernità per inaugurare non tanto una supposta Post-modernità, quanto, piuttosto e molto più radicalmente, la crisi di una civiltà e l’inizio di una transizione nella quale siamo tuttora immersi. Transizione da un mondo a un altro. Qualcosa che è accaduto già diverse volte nel corso della storia – pensiamo al passaggio dal mondo classico greco-romano al cosiddetto Medioevo (ricordandoci sempre che il Medioevo non è mail esistito se non come invenzione dell’Umanesimo), o poi anche a quello dal Medioevo al Rinascimento – e che ha portato quasi sempre con sé la diffusione epidemica di quelle che Ernesto De Martino – probabilmente uno dei pensatori italiani più importanti del XX secolo – chiamava le “crisi della presenza”, ovvero l’impossibilità di continuare a esser-ci e quindi il rischio di perdersi. Un disorientamento profondo come conseguenza della perdita del mondo, del proprio mondo in particolare, e l’incapacità di riuscire a percepire coerentemente una realtà ormai “altra” e profondamente diversa da quella precedente.

 

Se proviamo a studiare gli anni che seguirono la caduta dell’Impero romano d’Occidente, ancora oggi è possibile leggere le cronache che ci raccontano di come alcuni cittadini preferissero darsi volontariamente la morte piuttosto che continuare a vivere in un mondo che secondo loro era prossimo alla scomparsa, e se leggiamo il “Don Chisciotte” di Miguel de Cervantes, così come ha fatto Michel Foucault in Le parole e le cose, ci rendiamo conto che se l’hidalgo scambiava i mulini a vento per giganti, ed era convinto di essere un cavaliere d’altri tempi impegnato a difendere i deboli e Dulcinea insieme al suo fido scudiero, il contadino Sancho Panza, era proprio perché aveva risposto a una “crisi della presenza” attraverso una forma di psicosi “adattiva”, trovando cioè un modo di esser-ci ancora dentro un mondo che stava cambiando molto velocemente e che non riusciva più a riconoscere nella sua coerenza.

Ora, se proviamo a individuare i tratti caratteristici di quella che è stata la nostra Modernità, ci accorgiamo che questa struttura culturale nella quale ci è capitato di vivere, si era costruita intorno a un’idea molto precisa del “tempo” come progresso, crescita, sviluppo, rivoluzione. Si trattava di un tempo tutto rivolto verso il futuro come dimensione di liberazione e realizzazione dei propri desiderata, un “sentimento” che, a sua volta, affondava le radici nella rivoluzione cristiana e nella sua promessa di redenzione che trasformava il futuro in una promessa. Se quell’epoca è finita, come dicevamo qui sopra, con il Sessantotto, non è un caso che il nuovo mondo nel quale abbiamo iniziato a vivere sia stato inaugurato dal “No Future”, lo slogan più importante del movimento punk. Cosa accade quando il futuro carico di promesse si trasforma in un orizzonte pieno di interrogativi, angosce e incertezze? Quando l’unica dimensione nella quale è possibile esistere è un presente quasi sempre identico a sé stesso che tende a farsi eterno? Quando svanisce la percezione di un orizzonte nel quale progettarsi? Quando le strutture del tempo e dello spazio cambiano radicalmente rispetto a quelle nelle quali siamo stati abituati a comprendere le nostre esistenze? È possibile, come più volte ha indicato Mark Fisher, che la diffusione di massa, soprattutto nelle generazioni più giovani, del consumo di psicofarmaci, dipenda proprio da queste trasformazioni strutturali che causano sindromi psicotiche di vario genere.

Allo stesso modo, se guardiamo al mondo della formazione, ci accorgiamo che negli ultimi anni si sono moltiplicati tutta una serie di disturbi dell’apprendimento legati anche a una difficoltà sempre più diffusa di comprendere testi scritti lunghi e complessi. La parola scritta non è più il principale mezzo di comprensione della realtà né di conservazione e trasmissione del sapere e questo determina il tramonto di quella pedagogia costruita dai gesuiti dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili e che per secoli ha formato l’apparato cognitivo e sensitivo di generazioni di esseri umani. Allo stesso modo abbiamo ormai preso coscienza che il nostro modello di sviluppo, e il progetto antropocentrico nel quale siamo cresciuti, ha finito per mettere seriamente in pericolo l’ecosistema nel quale viviamo e quindi non possiamo più sentire la fine del nostro mondo e della nostra civiltà come una prospettiva così improbabile. Angoscia, ansia, depressione si diffondono come virus catturando le nostre vite quotidiane all’interno di una transizione nella quale il vecchio mondo, con le sue strutture percettive, muore, ma quello nuovo stenta ancora a nascere. A questo punto come si modifica la nostra “percezione” della realtà, e quali sono le conseguenze antropologiche di queste trasformazioni profonde del nostro stare al mondo?

Se pensiamo che la Modernità era stata inaugurata da una rivoluzione artistica, quella della prospettiva rinascimentale, e quindi da un mutamento radicale della percezione, quale sarà la struttura percettiva che renderà possibile un mondo a venire? Sembra essere questa la domanda intorno alla quale si costruisce il lavoro di Gianni Lucchesi negli ultimi anni. Da “Out there” (2021) a “Fatal error” (2022), fino a questo intervento con il quale si misura, non a caso, con uno spazio particolare come quello della Chiesa della Spina, la sua ricerca coglie il punto essenziale: la cicatrizzazione della faglia carsica nella quale rischiamo di precipitare è compito fondamentalmente artistico. Il processo di guarigione ha inizio grazie a una interrogazione, a un dubbio intorno alla “tenuta” della realtà che ci circonda. È solo da un movimento tellurico che può iniziare una ricostruzione della nostra capacità collettiva di saperci orientare nel mondo, e che possiamo dare vita a una nuova percezione della realtà che ci renda possibile esser-ci ancora tra un mondo e l’altro.

 

Se, da un lato, è finito il tempo delle certezze e quindi non sappiamo se sotto il selciato ci sia (ancora) la spiaggia, dall’altro nello “spaesamento” che caratterizza il nostro tempo, Gianni Lucchesi imprime un “segno” che ci interroga e al tempo stesso si fa presagio di nuove prospettive. È proprio da uno spazio come quello nel quale prende vita l’esperimento percettivo al quale assistiamo, che può nascere di nuovo la speranza di avere un mondo. E se un mondo non può che nascere dal dubbio – forse qui non è così superfluo ricordarci di Cartesio ‒,  dall’interrogazione inquieta che a sua volta rende possibile l‘esser-ci, è proprio per questo che oggi fare arte, come la fa Lucchesi, significa essenzialmente fare mondo, e quindi continuare a fare ostinatamente futuro.

Signum 
Gianni Lucchesi alla Chiesa di Santa Maria della Spina in Pisa
di Ilario Luperini

Lastre di marmo che si sollevano e si frammentano; come se una forza misteriosa creasse una spinta verso l’alto che provoca un sollevamento e un’irregolare frattura, una breccia dislocata in tutto il pavimento. Lastre di marmo o creazioni che fingono il marmo utilizzando materiali diversi?  Scaturisce subito una serie di domande. Cosa è successo? Oppure: cosa sta accadendo? O, ancora, che cosa sta per accadere? Passato, presente e futuro raccolti intorno al punto di domanda. Domina l’interrogativo, prevale il dubbio. Cioè quel comportamento cognitivo che, secondo Remo Bodei, non è l’opposto della verità; al contrario è indice della capacità di pensare e quindi di essere: attraverso il dubbio la persona si apre una strada che la porta verso l’autenticità, sottraendola all’influenza sia dell’opinione comune sia degli impulsi irrazionali. Peraltro Norberto Bobbio, ormai noto come il “filosofo del dubbio”, sosteneva in una sua pubblicazione del 1956, che «il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.» E gli artisti possono essere annoverati tra gli uomini di cultura? Superando le forzose elucubrazioni sorte intorno a questo dilemma, credo proprio di sì. E questo sommovimento, questa irregolare frattura, quasi un tremito della materia, come può spiegarsi? Forse come allusione al difficile rapporto tra l’immediatezza percettiva della superfice e la pulsante complessità del di dentro o del di sotto ? Forse.

Ma le interpretazioni possono diramarsi in molteplici direzioni.

Un richiamo alle vicende storiche di questo manufatto architettonico gotico (o, meglio, in questa sua ultima versione, quasi neogotico)? Forse.

Lo sappiamo: l’edificio è frutto di complesse vicende costruttive che hanno inizio nel Duecento e che hanno trovano esito nello smontaggio e rimontaggio del 1872, a una quota superiore, più arretrata rispetto al corso dell’Arno e con un’altezza aumentata di un metro per consentirgli un maggiore slancio verso l’alto (da qui la suggestione del neogotico).

Una frattura e un sommovimento che rimandano (siamo in una chiesa ancora consacrata) alle siderali distanze tra la commovente predicazione di Papa Francesco e il granitico impianto dottrinale delle gerarchie ecclesiastiche? Forse.

C’è, però, una spiegazione che a me convince di più. Un’allegoria del complesso periodo di crisi esistenziale cha stiamo vivendo. Le pandemie, le guerre, i disastri ambientali, le pressioni tecnologiche ci collocano in una dimensione in cui predominanti sono l’incertezza, l’ansia, il disorientamento; fattori che convergono, anche in questo caso, verso un inquietante interrogativo: come sta cambiando la definizione di “umano”? Una frattura profonda con il passato; al suo posto qualcosa, ancora indefinito, in fuga dalle costrizioni di un’identità fissa e coerente, in un momento in cui sembra essere minacciata la sopravvivenza stessa dell’umanità. Una condizione postumana e postantropocentrica.  Un complesso processo di riscrittura della storia che ha segnato profondamente gli ultimi anni, nei quali è apparso quanto mai evidente che nessuna narrazione storica può essere considerata definitiva. Da qui il titolo: Signum. Segno, impronta, sintomo, presagio. Qualcosa che ci ricorda che non siamo né invincibili né autosufficienti; che, piuttosto, siamo parte di un sistema di dipendenze simbiotiche che ci legano gli uni agli altri, ad altre specie e all’intero pianeta. Ricollegare ciò che il capitalismo ha diviso: il nostro rapporto con la natura, con gli altri e con i nostri corpi, in modo da ritrovare un senso di integrità nelle nostre vite.

Questo mi suggerisce l’opera di Gianni Lucchesi. Non so quanto distante sia dai suoi intenti creativi, ma questo gli devo, come piccolo contributo alla sua raffinatezza creativa e alla sua straordinaria capacità di interpretare le stringenti relazioni tra etica ed estetica.

E, allora, Gianni Lucchesi è da collocare nell’ambito di un tardivo recupero del concettualismo? No. E qui non rinuncio a una mia solida certezza. NO, perché la dominante dell’opera è la manualità, la costruzione e l’assemblaggio di quelle lastre di simulato marmo; per creare quella struttura è stato necessario un meticoloso lavoro manuale e il progetto si è andato sviluppando e definendo proprio durante il percorso creativo, quando la mano sollecitava il pensiero. Intellettualità e manualità si sono perfettamente integrate. L’opera c’è e non sfuma nel solo pensiero.

Fatal Error
di Nicolas Ballario

L’arte oggi ci suggerisce un teatro senza palcoscenico, forse perché il sensazionalismo non è più un valore nella rappresentazione e gli artisti hanno capito di essere acrobati capaci di fare meno capriole del pubblico. Allora anche il senso di ironia è venuto meno, per lasciare spazio a un’arte che non insegna, che non è madre, ma compagna da tenere per mano.

Questa mostra ci indica proprio questo, che la curiosità complice vince sulla ricerca di qualcuno o qualcosa da ammirare. L’ammirazione infatti non può essere che per qualcosa di raro e in una società in cui tutto è a portata di mano non esiste la rarità.

Gianni Lucchesi non ammicca allo spirito dei tempi, che ci vuole performanti e intoccabili, ma anzi cerca di proteggere un tempo differente, parallelo, abitato da chi ha conosciuto così bene il dolore da essere ormai incapace di soffrire. Immuni al dolore perché è una condizione impossibile se si vive una dimensione di totale solitudine, dove l’empatia non è contemplabile e dove la percezione arbitraria è lo spirito dal quale veniamo abitati.

Ogni sala è un’isola deserta, una navicella spaziale che si è persa senza possibilità di trovare una rotta. E possiamo parlare di rischio quando la vita è limbo? Probabilmente no.

Questa mostra infatti è una roulette russa con tutti i colpi in canna: in quel Fatal Error io non leggo la ricerca del rischio, ma una tragica rinuncia, quando capiamo che la differenza tra sopravvivere e morire è così sottile da non farci preferire una condizione all’altra. Un blocco irreversibile di un sistema che non c’è e ci porta quindi a perderci nell’infinità di un tempo che si ripete e di uno spazio che non finisce. E più guardo i protagonisti di queste opere e meno vedo azzardo. Anzi mi sembrano pervasi da pettegolo torpore, quella curiosità che allontana dalla prudenza e permette salti nel vuoto o desiderio di spezzare una membrana protettiva.

Qui entriamo nell’ottica metaforica in cui ci porta l’artista, dicendoci che più che scherzare col fuoco oggi bruciamo senza accorgercene, calati come siamo in un flusso quotidiano di autodistruzione. Riesce in un certo senso a sradicare la concezione politica dell’arte, rappresentando gli esseri umani che non hanno più una bandiera, che non appartengono ad alcun ordine e che non ne cercano uno nuovo.

Come abbiamo detto Lucchesi è lontano dallo spirito del tempo e crea senza modelli, dando forma a nuove figure che vivono attraverso l’arte e nient’altro.

Tutto prende più forza sapendo che alcuni metri più sopra troviamo La Deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino, perché la ricerca di dialogo con esso è palese: Il grande critico d’arte Achille Bonito Oliva nel suo libro più bello, L’ideologia del traditore, ci spiega che fino al Rinascimento l’artista si predispone frontalmente rispetto ai valori, mentre con il Manierismo diventa una figura laterale. È come se guardasse la scena del mondo senza la necessità di intervenire. Insomma, traditore è chi non accetta il mondo che osserva, vorrebbe modificarlo, ma alla fine non fa niente e resta nella sua riserva mentale. E in questo percorso vivono in riserve le opere così come lo facciamo noi.

Lucchesi va persino oltre il tradimento e oltre a metterci di fronte alla nostra mancanza di empatia, cerca di tenderci un tranello: evoca il capolavoro del Rosso senza mostrarcelo, tentando una specie di perverso esperimento psicologico. Ci spinge a riflettere sul fatto che la reazione provocata dal sapere sia più forte di quella provocata dal guardare e quindi per emozionarci sia sufficiente intuire l’arte. Ecco il Fatal error, quello della nostra percezione che ci sussurra che bastiamo a noi stessi. La prima opera nota del dirompente e magnifico duo Gilbert & George è del 1969 e si intitola George the Cunt e Gilbert the Shit, un doppio autoritratto dei due artisti stesi su un prato, vestiti di tutto punto e con una rosa bianca al bavero, come se fosse la fotografia di una scampagnata: unico dettaglio, non irrilevante, scrivono sull’immagine una serie di insulti rivolti a loro stessi. Quella vuole essere da parte loro una dichiarazione di indipendenza dai sistemi dell’arte, rivolgendosi insulti vogliono disinnescare qualunque futura reazione di quel mondo dell’arte: sembrano dire “volete insultarci, beh non potete, perché lo facciamo da soli”.

Lucchesi facendosi autore del sabotaggio di una pietra miliare della storia dell’arte fa la stessa cosa, rimbalza ogni accusa diventando il boia di se stesso: distrugge l’arte per chiederci se questa per noi ancora esista.

Questa esposizione è l’ossimoro di una patria di apolidi, figure piccole e non misere che sono snodo, cerniera, giuntura: la membrana si romperà? Il colpo di pistola ucciderà? Il salto finirà nel vuoto? Per ogni domanda è sbagliato rispondere sì ed è sbagliato rispondere no. Come diceva Mark Rothko il momento più interessante è l’attimo dell’esplosione, non il prima e il dopo.

Quella frazione di secondo in cui tutto si fa indistinto nella luce, nel detonatore che Lucchesi attiva e poi ferma nel tempo, tenendoci nella costante tensione di un gioco malato: la vita c’è sempre, la vita non c’è mai.

Out there 
di Nicolas Ballario

In questo titolo, Out There, non c’è alcun senso poetico di evasione, non ci sono orizzonti lontani evocati come sogno di conquista dell’essere umano. E se è vero che la ricerca di Gianni Lucchesi cammina sulle gambe della semplificazione, è altrettanto vero che la sua esigenza è quella di trovare un lessico teatrale, che svela il proprio sorprendente percorso solo ad avventura compiuta e che permette di abbandonare il mondo e di entrare nell’opera. Le immagini che ci offre non sono semplice rappresentazione, sono flusso di materia che vive e che è nostro complice, perché in un certo senso ci conforta pensare che se c’è un “là fuori” noi abbiamo la fortuna di vivere “qui dentro”. Ci sono presenze di ogni sorta e tipo che si possono vedere, ma in realtà è lo spettatore stesso a rappresentare e a completare l’opera. Questo perché solo attraverso una proiezione della nostra mente, forse animata da impulso di inadeguatezza, riusciamo a capire che c’è un perverso senso di simmetria tra ciò che vediamo e ciò che invece possiamo solo immaginare. Questi due aspetti si completano a vicenda e a noi che guardiamo danno un senso di mancanza, è vero, ma quel vuoto non è mai stato così incombente. Lucchesi sa giocare con la percezione e quei monoliti si fanno unità di misura, per capire quanto siano piccole quelle figure che guardano lontano. Notate che a nessuno di noi viene in mente di chiederci chi siano, ma solo dove guardino? Perché i loro sguardi sono tutti protesi altrove? E l’irrefrenabile voglia di seguire il loro sguardo è sollecitata dall’uso della luce di questa mostra, che non illumina, ma modella. Perché tutte queste piccole sculture sono isole che sorgono in una luce navigabile, che è fiume. E se fossimo capaci di salpare potremmo scoprire a cosa porta questo flusso, potremmo capire cosa si trova nell’altra faccia di questo specchio che solo l’artista può vedere e si dispera per il fatto di essere così solo in questa possibilità.

E ancora più viva e morbosa si fa la nostra curiosità nel vedere quei branchi di cervi e di uomini che si spostano nel limbo delle tele, perché a differenza delle sculture loro non solo hanno visto ciò che noi non vediamo, ma si stanno spostando per raggiungere quella meta. Cosa vuole dirci Lucchesi con questa esposizione? Che l’epoca contemporanea è fatta di connessioni e di possibilità di conoscenza e che l’errore più grande è confondere l’impalpabile con l’improbabile. L’epoca contemporanea sembra fatta di tante piccole apocalissi che però noi ci ostiniamo a oscurare, a non voler vedere. E anziché prendere per mano il dolore per capirlo e accompagnarlo in un angolo, continuiamo a provocarlo, a farlo avvicinare per poi scansarci di colpo, come fosse un toro che ci carica in un’arena. E noi toreri condannati alla sconfitta. Ecco dove guardano quei piccoli uomini, così ben vestiti come ad aspettare una visita di qualcuno di importante. Loro, quelle miniature nella cui misura c’è tutto il senso di Nietzsche che ci ammoniva dicendo che quanto più ci innalziamo, tanto più piccoli sembriamo a quelli che non possono volare, sanno muoversi verso la consapevolezza che la ricerca e non l’elusione è il senso della responsabilità di essere vivi, perché nel fuggire forse si curano momentaneamente i feriti, ma non si potrà mai vincere la guerra contro le catastrofi del nostro tempo. Il distacco non è una soluzione, mentre l’incontro può esserlo. Allora ecco che la narrazione di Lucchesi lascia il posto a un gusto amaro, a un senso di colpa: la teoria dei sei gradi di separazione in semiotica e in sociologia è un’ipotesi secondo la quale ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di 5 intermediari. Ecco, in questa sala oggi ci accorgiamo che l’intermediario è uno, è l’artista che ha visto cosa c’è dopo. E la cosa assurda è che questa vicinanza non è sufficiente, perché non ci importa che le violenze, le catastrofi climatiche e ambientali, le guerre, le migrazioni di massa, le epidemie che sono all’ordine del giorno accadano in un altro continente, in un’altra nazione, in un’altra città o in un altro pianerottolo. L’importante è che non ci riguardino. Per questo si legge anche un diffuso senso di insicurezza da parte dell’autore, la paura di non riuscire l’obiettivo. Noi di questo siamo perversamente felici, perché quando un artista è sicuro di sé, è finito.

Ho sempre pensato che Gianni Lucchesi con quella sua ricerca continua di intrecci emotivi e viscerali, di insofferenza tra materiali e forme, di contatti tra sagome e contiguità di atteggiamenti, di relazione tra profili e legami tra impulsi, altro non faccia che tentare di capovolgere un distacco. Ma se con i suoi lavori precedenti credevo che lavorasse per colmare un vuoto, per riempire una casella della sua vita che ancora non riusciva a definire, con questa mostra che arriva nel culmine della sua maturità artistica credo lui sia riuscito a compiere un passo ulteriore. A vedere, ad aver capito come fare di un’assenza, una presenza. E in mezzo a queste figure cercheremo di capire quale ci somiglia di più, di capire quale particella invisibile siamo noi. Che sia per paura o per emancipazione, perché Lucchesi ci suggerisce che ciò che non esiste e ciò che non si vede sono potenzialmente fratelli.

 

Signum 
Sotto il selciato c’è (ancora) la spiaggia?
Nicolas Martino

Sotto il selciato c’è (ancora) la spiaggia? In questa frase che trasforma in interrogazione uno degli slogan più famosi del Maggio parigino, sembra essere contenuta la chiave di volta del “segno” impresso da Gianni Lucchesi all’interno della Chiesa della Spina a Pisa. Se, infatti, quelle giornate del Maggio annunciavano un nuovo mondo a venire carico di promesse, in realtà segnavano anche, e forse soprattutto, il tramonto della civiltà moderna e quindi la fine di una “percezione” della realtà che aveva messo al centro l’uomo e il suo progetto sul mondo e sulla natura.

È possibile, questo voglio dire, che il Sessantotto abbia segnato la fine di quella che abbiamo chiamato Modernità per inaugurare non tanto una supposta Post-modernità, quanto, piuttosto e molto più radicalmente, la crisi di una civiltà e l’inizio di una transizione nella quale siamo tuttora immersi. Transizione da un mondo a un altro. Qualcosa che è accaduto già diverse volte nel corso della storia – pensiamo al passaggio dal mondo classico greco-romano al cosiddetto Medioevo (ricordandoci sempre che il Medioevo non è mail esistito se non come invenzione dell’Umanesimo), o poi anche a quello dal Medioevo al Rinascimento – e che ha portato quasi sempre con sé la diffusione epidemica di quelle che Ernesto De Martino – probabilmente uno dei pensatori italiani più importanti del XX secolo – chiamava le “crisi della presenza”, ovvero l’impossibilità di continuare a esser-ci e quindi il rischio di perdersi. Un disorientamento profondo come conseguenza della perdita del mondo, del proprio mondo in particolare, e l’incapacità di riuscire a percepire coerentemente una realtà ormai “altra” e profondamente diversa da quella precedente.

 

Se proviamo a studiare gli anni che seguirono la caduta dell’Impero romano d’Occidente, ancora oggi è possibile leggere le cronache che ci raccontano di come alcuni cittadini preferissero darsi volontariamente la morte piuttosto che continuare a vivere in un mondo che secondo loro era prossimo alla scomparsa, e se leggiamo il “Don Chisciotte” di Miguel de Cervantes, così come ha fatto Michel Foucault in Le parole e le cose, ci rendiamo conto che se l’hidalgo scambiava i mulini a vento per giganti, ed era convinto di essere un cavaliere d’altri tempi impegnato a difendere i deboli e Dulcinea insieme al suo fido scudiero, il contadino Sancho Panza, era proprio perché aveva risposto a una “crisi della presenza” attraverso una forma di psicosi “adattiva”, trovando cioè un modo di esser-ci ancora dentro un mondo che stava cambiando molto velocemente e che non riusciva più a riconoscere nella sua coerenza.

Ora, se proviamo a individuare i tratti caratteristici di quella che è stata la nostra Modernità, ci accorgiamo che questa struttura culturale nella quale ci è capitato di vivere, si era costruita intorno a un’idea molto precisa del “tempo” come progresso, crescita, sviluppo, rivoluzione. Si trattava di un tempo tutto rivolto verso il futuro come dimensione di liberazione e realizzazione dei propri desiderata, un “sentimento” che, a sua volta, affondava le radici nella rivoluzione cristiana e nella sua promessa di redenzione che trasformava il futuro in una promessa. Se quell’epoca è finita, come dicevamo qui sopra, con il Sessantotto, non è un caso che il nuovo mondo nel quale abbiamo iniziato a vivere sia stato inaugurato dal “No Future”, lo slogan più importante del movimento punk. Cosa accade quando il futuro carico di promesse si trasforma in un orizzonte pieno di interrogativi, angosce e incertezze? Quando l’unica dimensione nella quale è possibile esistere è un presente quasi sempre identico a sé stesso che tende a farsi eterno? Quando svanisce la percezione di un orizzonte nel quale progettarsi? Quando le strutture del tempo e dello spazio cambiano radicalmente rispetto a quelle nelle quali siamo stati abituati a comprendere le nostre esistenze? È possibile, come più volte ha indicato Mark Fisher, che la diffusione di massa, soprattutto nelle generazioni più giovani, del consumo di psicofarmaci, dipenda proprio da queste trasformazioni strutturali che causano sindromi psicotiche di vario genere.

Allo stesso modo, se guardiamo al mondo della formazione, ci accorgiamo che negli ultimi anni si sono moltiplicati tutta una serie di disturbi dell’apprendimento legati anche a una difficoltà sempre più diffusa di comprendere testi scritti lunghi e complessi. La parola scritta non è più il principale mezzo di comprensione della realtà né di conservazione e trasmissione del sapere e questo determina il tramonto di quella pedagogia costruita dai gesuiti dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili e che per secoli ha formato l’apparato cognitivo e sensitivo di generazioni di esseri umani. Allo stesso modo abbiamo ormai preso coscienza che il nostro modello di sviluppo, e il progetto antropocentrico nel quale siamo cresciuti, ha finito per mettere seriamente in pericolo l’ecosistema nel quale viviamo e quindi non possiamo più sentire la fine del nostro mondo e della nostra civiltà come una prospettiva così improbabile. Angoscia, ansia, depressione si diffondono come virus catturando le nostre vite quotidiane all’interno di una transizione nella quale il vecchio mondo, con le sue strutture percettive, muore, ma quello nuovo stenta ancora a nascere. A questo punto come si modifica la nostra “percezione” della realtà, e quali sono le conseguenze antropologiche di queste trasformazioni profonde del nostro stare al mondo?

Se pensiamo che la Modernità era stata inaugurata da una rivoluzione artistica, quella della prospettiva rinascimentale, e quindi da un mutamento radicale della percezione, quale sarà la struttura percettiva che renderà possibile un mondo a venire? Sembra essere questa la domanda intorno alla quale si costruisce il lavoro di Gianni Lucchesi negli ultimi anni. Da “Out there” (2021) a “Fatal error” (2022), fino a questo intervento con il quale si misura, non a caso, con uno spazio particolare come quello della Chiesa della Spina, la sua ricerca coglie il punto essenziale: la cicatrizzazione della faglia carsica nella quale rischiamo di precipitare è compito fondamentalmente artistico. Il processo di guarigione ha inizio grazie a una interrogazione, a un dubbio intorno alla “tenuta” della realtà che ci circonda. È solo da un movimento tellurico che può iniziare una ricostruzione della nostra capacità collettiva di saperci orientare nel mondo, e che possiamo dare vita a una nuova percezione della realtà che ci renda possibile esser-ci ancora tra un mondo e l’altro.

 

Se, da un lato, è finito il tempo delle certezze e quindi non sappiamo se sotto il selciato ci sia (ancora) la spiaggia, dall’altro nello “spaesamento” che caratterizza il nostro tempo, Gianni Lucchesi imprime un “segno” che ci interroga e al tempo stesso si fa presagio di nuove prospettive. È proprio da uno spazio come quello nel quale prende vita l’esperimento percettivo al quale assistiamo, che può nascere di nuovo la speranza di avere un mondo. E se un mondo non può che nascere dal dubbio – forse qui non è così superfluo ricordarci di Cartesio ‒,  dall’interrogazione inquieta che a sua volta rende possibile l‘esser-ci, è proprio per questo che oggi fare arte, come la fa Lucchesi, significa essenzialmente fare mondo, e quindi continuare a fare ostinatamente futuro.

Signum 
Gianni Lucchesi alla Chiesa di Santa Maria della Spina in Pisa
di Ilario Luperini

Lastre di marmo che si sollevano e si frammentano; come se una forza misteriosa creasse una spinta verso l’alto che provoca un sollevamento e un’irregolare frattura, una breccia dislocata in tutto il pavimento. Lastre di marmo o creazioni che fingono il marmo utilizzando materiali diversi?  Scaturisce subito una serie di domande. Cosa è successo? Oppure: cosa sta accadendo? O, ancora, che cosa sta per accadere? Passato, presente e futuro raccolti intorno al punto di domanda. Domina l’interrogativo, prevale il dubbio. Cioè quel comportamento cognitivo che, secondo Remo Bodei, non è l’opposto della verità; al contrario è indice della capacità di pensare e quindi di essere: attraverso il dubbio la persona si apre una strada che la porta verso l’autenticità, sottraendola all’influenza sia dell’opinione comune sia degli impulsi irrazionali. Peraltro Norberto Bobbio, ormai noto come il “filosofo del dubbio”, sosteneva in una sua pubblicazione del 1956, che «il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.» E gli artisti possono essere annoverati tra gli uomini di cultura? Superando le forzose elucubrazioni sorte intorno a questo dilemma, credo proprio di sì. E questo sommovimento, questa irregolare frattura, quasi un tremito della materia, come può spiegarsi? Forse come allusione al difficile rapporto tra l’immediatezza percettiva della superfice e la pulsante complessità del di dentro o del di sotto ? Forse.

Ma le interpretazioni possono diramarsi in molteplici direzioni.

Un richiamo alle vicende storiche di questo manufatto architettonico gotico (o, meglio, in questa sua ultima versione, quasi neogotico)? Forse.

Lo sappiamo: l’edificio è frutto di complesse vicende costruttive che hanno inizio nel Duecento e che hanno trovano esito nello smontaggio e rimontaggio del 1872, a una quota superiore, più arretrata rispetto al corso dell’Arno e con un’altezza aumentata di un metro per consentirgli un maggiore slancio verso l’alto (da qui la suggestione del neogotico).

Una frattura e un sommovimento che rimandano (siamo in una chiesa ancora consacrata) alle siderali distanze tra la commovente predicazione di Papa Francesco e il granitico impianto dottrinale delle gerarchie ecclesiastiche? Forse.

C’è, però, una spiegazione che a me convince di più. Un’allegoria del complesso periodo di crisi esistenziale cha stiamo vivendo. Le pandemie, le guerre, i disastri ambientali, le pressioni tecnologiche ci collocano in una dimensione in cui predominanti sono l’incertezza, l’ansia, il disorientamento; fattori che convergono, anche in questo caso, verso un inquietante interrogativo: come sta cambiando la definizione di “umano”? Una frattura profonda con il passato; al suo posto qualcosa, ancora indefinito, in fuga dalle costrizioni di un’identità fissa e coerente, in un momento in cui sembra essere minacciata la sopravvivenza stessa dell’umanità. Una condizione postumana e postantropocentrica.  Un complesso processo di riscrittura della storia che ha segnato profondamente gli ultimi anni, nei quali è apparso quanto mai evidente che nessuna narrazione storica può essere considerata definitiva. Da qui il titolo: Signum. Segno, impronta, sintomo, presagio. Qualcosa che ci ricorda che non siamo né invincibili né autosufficienti; che, piuttosto, siamo parte di un sistema di dipendenze simbiotiche che ci legano gli uni agli altri, ad altre specie e all’intero pianeta. Ricollegare ciò che il capitalismo ha diviso: il nostro rapporto con la natura, con gli altri e con i nostri corpi, in modo da ritrovare un senso di integrità nelle nostre vite.

Questo mi suggerisce l’opera di Gianni Lucchesi. Non so quanto distante sia dai suoi intenti creativi, ma questo gli devo, come piccolo contributo alla sua raffinatezza creativa e alla sua straordinaria capacità di interpretare le stringenti relazioni tra etica ed estetica.

E, allora, Gianni Lucchesi è da collocare nell’ambito di un tardivo recupero del concettualismo? No. E qui non rinuncio a una mia solida certezza. NO, perché la dominante dell’opera è la manualità, la costruzione e l’assemblaggio di quelle lastre di simulato marmo; per creare quella struttura è stato necessario un meticoloso lavoro manuale e il progetto si è andato sviluppando e definendo proprio durante il percorso creativo, quando la mano sollecitava il pensiero. Intellettualità e manualità si sono perfettamente integrate. L’opera c’è e non sfuma nel solo pensiero.

Fatal Error
di Nicolas Ballario

L’arte oggi ci suggerisce un teatro senza palcoscenico, forse perché il sensazionalismo non è più un valore nella rappresentazione e gli artisti hanno capito di essere acrobati capaci di fare meno capriole del pubblico. Allora anche il senso di ironia è venuto meno, per lasciare spazio a un’arte che non insegna, che non è madre, ma compagna da tenere per mano.

Questa mostra ci indica proprio questo, che la curiosità complice vince sulla ricerca di qualcuno o qualcosa da ammirare. L’ammirazione infatti non può essere che per qualcosa di raro e in una società in cui tutto è a portata di mano non esiste la rarità.

Gianni Lucchesi non ammicca allo spirito dei tempi, che ci vuole performanti e intoccabili, ma anzi cerca di proteggere un tempo differente, parallelo, abitato da chi ha conosciuto così bene il dolore da essere ormai incapace di soffrire. Immuni al dolore perché è una condizione impossibile se si vive una dimensione di totale solitudine, dove l’empatia non è contemplabile e dove la percezione arbitraria è lo spirito dal quale veniamo abitati.

Ogni sala è un’isola deserta, una navicella spaziale che si è persa senza possibilità di trovare una rotta. E possiamo parlare di rischio quando la vita è limbo? Probabilmente no.

Questa mostra infatti è una roulette russa con tutti i colpi in canna: in quel Fatal Error io non leggo la ricerca del rischio, ma una tragica rinuncia, quando capiamo che la differenza tra sopravvivere e morire è così sottile da non farci preferire una condizione all’altra. Un blocco irreversibile di un sistema che non c’è e ci porta quindi a perderci nell’infinità di un tempo che si ripete e di uno spazio che non finisce. E più guardo i protagonisti di queste opere e meno vedo azzardo. Anzi mi sembrano pervasi da pettegolo torpore, quella curiosità che allontana dalla prudenza e permette salti nel vuoto o desiderio di spezzare una membrana protettiva.

Qui entriamo nell’ottica metaforica in cui ci porta l’artista, dicendoci che più che scherzare col fuoco oggi bruciamo senza accorgercene, calati come siamo in un flusso quotidiano di autodistruzione. Riesce in un certo senso a sradicare la concezione politica dell’arte, rappresentando gli esseri umani che non hanno più una bandiera, che non appartengono ad alcun ordine e che non ne cercano uno nuovo.

Come abbiamo detto Lucchesi è lontano dallo spirito del tempo e crea senza modelli, dando forma a nuove figure che vivono attraverso l’arte e nient’altro.

Tutto prende più forza sapendo che alcuni metri più sopra troviamo La Deposizione dalla croce di Rosso Fiorentino, perché la ricerca di dialogo con esso è palese: Il grande critico d’arte Achille Bonito Oliva nel suo libro più bello, L’ideologia del traditore, ci spiega che fino al Rinascimento l’artista si predispone frontalmente rispetto ai valori, mentre con il Manierismo diventa una figura laterale. È come se guardasse la scena del mondo senza la necessità di intervenire. Insomma, traditore è chi non accetta il mondo che osserva, vorrebbe modificarlo, ma alla fine non fa niente e resta nella sua riserva mentale. E in questo percorso vivono in riserve le opere così come lo facciamo noi.

Lucchesi va persino oltre il tradimento e oltre a metterci di fronte alla nostra mancanza di empatia, cerca di tenderci un tranello: evoca il capolavoro del Rosso senza mostrarcelo, tentando una specie di perverso esperimento psicologico. Ci spinge a riflettere sul fatto che la reazione provocata dal sapere sia più forte di quella provocata dal guardare e quindi per emozionarci sia sufficiente intuire l’arte. Ecco il Fatal error, quello della nostra percezione che ci sussurra che bastiamo a noi stessi. La prima opera nota del dirompente e magnifico duo Gilbert & George è del 1969 e si intitola George the Cunt e Gilbert the Shit, un doppio autoritratto dei due artisti stesi su un prato, vestiti di tutto punto e con una rosa bianca al bavero, come se fosse la fotografia di una scampagnata: unico dettaglio, non irrilevante, scrivono sull’immagine una serie di insulti rivolti a loro stessi. Quella vuole essere da parte loro una dichiarazione di indipendenza dai sistemi dell’arte, rivolgendosi insulti vogliono disinnescare qualunque futura reazione di quel mondo dell’arte: sembrano dire “volete insultarci, beh non potete, perché lo facciamo da soli”.

Lucchesi facendosi autore del sabotaggio di una pietra miliare della storia dell’arte fa la stessa cosa, rimbalza ogni accusa diventando il boia di se stesso: distrugge l’arte per chiederci se questa per noi ancora esista.

Questa esposizione è l’ossimoro di una patria di apolidi, figure piccole e non misere che sono snodo, cerniera, giuntura: la membrana si romperà? Il colpo di pistola ucciderà? Il salto finirà nel vuoto? Per ogni domanda è sbagliato rispondere sì ed è sbagliato rispondere no. Come diceva Mark Rothko il momento più interessante è l’attimo dell’esplosione, non il prima e il dopo.

Quella frazione di secondo in cui tutto si fa indistinto nella luce, nel detonatore che Lucchesi attiva e poi ferma nel tempo, tenendoci nella costante tensione di un gioco malato: la vita c’è sempre, la vita non c’è mai.

Out there 
di Nicolas Ballario

In questo titolo, Out There, non c’è alcun senso poetico di evasione, non ci sono orizzonti lontani evocati come sogno di conquista dell’essere umano. E se è vero che la ricerca di Gianni Lucchesi cammina sulle gambe della semplificazione, è altrettanto vero che la sua esigenza è quella di trovare un lessico teatrale, che svela il proprio sorprendente percorso solo ad avventura compiuta e che permette di abbandonare il mondo e di entrare nell’opera. Le immagini che ci offre non sono semplice rappresentazione, sono flusso di materia che vive e che è nostro complice, perché in un certo senso ci conforta pensare che se c’è un “là fuori” noi abbiamo la fortuna di vivere “qui dentro”. Ci sono presenze di ogni sorta e tipo che si possono vedere, ma in realtà è lo spettatore stesso a rappresentare e a completare l’opera. Questo perché solo attraverso una proiezione della nostra mente, forse animata da impulso di inadeguatezza, riusciamo a capire che c’è un perverso senso di simmetria tra ciò che vediamo e ciò che invece possiamo solo immaginare. Questi due aspetti si completano a vicenda e a noi che guardiamo danno un senso di mancanza, è vero, ma quel vuoto non è mai stato così incombente. Lucchesi sa giocare con la percezione e quei monoliti si fanno unità di misura, per capire quanto siano piccole quelle figure che guardano lontano. Notate che a nessuno di noi viene in mente di chiederci chi siano, ma solo dove guardino? Perché i loro sguardi sono tutti protesi altrove? E l’irrefrenabile voglia di seguire il loro sguardo è sollecitata dall’uso della luce di questa mostra, che non illumina, ma modella. Perché tutte queste piccole sculture sono isole che sorgono in una luce navigabile, che è fiume. E se fossimo capaci di salpare potremmo scoprire a cosa porta questo flusso, potremmo capire cosa si trova nell’altra faccia di questo specchio che solo l’artista può vedere e si dispera per il fatto di essere così solo in questa possibilità.

E ancora più viva e morbosa si fa la nostra curiosità nel vedere quei branchi di cervi e di uomini che si spostano nel limbo delle tele, perché a differenza delle sculture loro non solo hanno visto ciò che noi non vediamo, ma si stanno spostando per raggiungere quella meta. Cosa vuole dirci Lucchesi con questa esposizione? Che l’epoca contemporanea è fatta di connessioni e di possibilità di conoscenza e che l’errore più grande è confondere l’impalpabile con l’improbabile. L’epoca contemporanea sembra fatta di tante piccole apocalissi che però noi ci ostiniamo a oscurare, a non voler vedere. E anziché prendere per mano il dolore per capirlo e accompagnarlo in un angolo, continuiamo a provocarlo, a farlo avvicinare per poi scansarci di colpo, come fosse un toro che ci carica in un’arena. E noi toreri condannati alla sconfitta. Ecco dove guardano quei piccoli uomini, così ben vestiti come ad aspettare una visita di qualcuno di importante. Loro, quelle miniature nella cui misura c’è tutto il senso di Nietzsche che ci ammoniva dicendo che quanto più ci innalziamo, tanto più piccoli sembriamo a quelli che non possono volare, sanno muoversi verso la consapevolezza che la ricerca e non l’elusione è il senso della responsabilità di essere vivi, perché nel fuggire forse si curano momentaneamente i feriti, ma non si potrà mai vincere la guerra contro le catastrofi del nostro tempo. Il distacco non è una soluzione, mentre l’incontro può esserlo. Allora ecco che la narrazione di Lucchesi lascia il posto a un gusto amaro, a un senso di colpa: la teoria dei sei gradi di separazione in semiotica e in sociologia è un’ipotesi secondo la quale ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di 5 intermediari. Ecco, in questa sala oggi ci accorgiamo che l’intermediario è uno, è l’artista che ha visto cosa c’è dopo. E la cosa assurda è che questa vicinanza non è sufficiente, perché non ci importa che le violenze, le catastrofi climatiche e ambientali, le guerre, le migrazioni di massa, le epidemie che sono all’ordine del giorno accadano in un altro continente, in un’altra nazione, in un’altra città o in un altro pianerottolo. L’importante è che non ci riguardino. Per questo si legge anche un diffuso senso di insicurezza da parte dell’autore, la paura di non riuscire l’obiettivo. Noi di questo siamo perversamente felici, perché quando un artista è sicuro di sé, è finito.

Ho sempre pensato che Gianni Lucchesi con quella sua ricerca continua di intrecci emotivi e viscerali, di insofferenza tra materiali e forme, di contatti tra sagome e contiguità di atteggiamenti, di relazione tra profili e legami tra impulsi, altro non faccia che tentare di capovolgere un distacco. Ma se con i suoi lavori precedenti credevo che lavorasse per colmare un vuoto, per riempire una casella della sua vita che ancora non riusciva a definire, con questa mostra che arriva nel culmine della sua maturità artistica credo lui sia riuscito a compiere un passo ulteriore. A vedere, ad aver capito come fare di un’assenza, una presenza. E in mezzo a queste figure cercheremo di capire quale ci somiglia di più, di capire quale particella invisibile siamo noi. Che sia per paura o per emancipazione, perché Lucchesi ci suggerisce che ciò che non esiste e ciò che non si vede sono potenzialmente fratelli.

 

 

L’inossidabile coerenza delle idee.
Gianni Lucchesi e il monumento a Sandro Pertini

Realizzare oggi un monumento celebrativo è impresa difficile e coraggiosa. Da un lato, significa confrontarsi con il dibattuto e controverso tema del valore, del senso e della forma del monumento pubblico nell’era contemporanea per individuare forme espressive in grado di superare in modo convincente il cliché dell’omaggio, del ricordo e della commemorazione retorica per approdare a forme significanti condivise, in grado di trasformare il particolare in universale, la celebrazione in contenuto, la reminiscenza in riflessione consapevole, l’assenza in presenza e il vuoto urbano in pieno semanticamente pregnante. Dall’altro lato, realizzare oggi un monumento a Pertini, nella sua terra di origine, significa non soltanto confrontarsi con le istanze della ricerca artistica ed espressiva contemporanea, ma anche, e prima ancora, con l’uomo, il personaggio, che ha lasciato una traccia indelebile nella storia del Novecento e nella memoria di tutti per la titanica affermazione del proprio pensiero: un esempio, un faro, un vessillo, incorruttibile e solido a fronte degli eventi e delle intemperie; un riferimento che si concretizzava prima ancora che nelle azioni, nelle parole e nel pensiero che le stesse azioni sostenevano con logica consequenzialità.

Gianni Lucchesi ci è riuscito. Ha scelto la via più complessa, dove la riscrittura delle forme tradizionali viene declinata a favore di un linguaggio non figurativo, denso, nel quale significato e significante convergono senza mai perdere la chiarezza e l’immediatezza che un‘opera destinata alla pubblica fruizione programmaticamente intende possedere e senza, al contempo, venir meno alle proprie istanze poetiche ed artistiche che indagano, attraverso l’universalità del segno e del simbolo, gli aspetti interiori dell’umanità: un tributo all’essenza, dunque, prima che all’immagine del personaggio, che trova il suo fondamento proprio nell’incisività e nell’attualità del pensiero, dei discorsi, delle parole del suo dedicatario.

È ben nota, del resto, la riottosità nei confronti del ritratto celebrativo da parte di Pertini, che anteponeva alla celebrazione di sé stesso l’affermazione coerente delle proprie idee e dei valori in cui riversava il proprio credo politico e di vita. Così, proprio come un vessillo, solido, saldamente ancorato al terreno ma al contempo proiettato verso l’alto, Gianni Lucchesi ha concepito un monumento sui generis che, nella essenzialità della sua forma e della materia simboleggia l’integerrima, unica, solidità dell’animo e del pensiero del suo dedicatario: un monolite in acciaio corten, solo apparentemente esile – ben 6 tonnellate -, saldamente ancorato al suolo tramite un sapiente virtuosismo tecnico ed ingegneristico, che si staglia alto e perfettamente dritto contro il cielo. Reca in sé il senso profondo ed eterno dell’anima di Pertini attraverso le sue stesse parole, che appaiono intagliate nella parte superiore del corpo della lamiera stessa, quali elementi caratterizzanti, ossatura ed essenza del monumento e dell’animo di Pertini. Sono declamate a gran voce verso l’alto, chiare, limpide, eterne, squillanti, come la sua voce vivida così impressa nella memoria di tutti. Il materiale che lo compone possiede una intenzionale valenza simbolica: l’acciaio ha una spiccata connotazione monumentale; il forte spessore con cui è lavorato accentua le caratteristiche intrinseche di resistenza, mentre il trattamento di ossidazione a cui è sottoposto, che ne mette in risalto l’aspetto ferroso e materico, produce una patina protettiva che non si altera con il tempo e lo rende intaccabile dalle intemperie. Un materiale emblematico, dunque che rinvia alla ruvida inossidabilità della figura e del pensiero di Pertini ma che declina anche in una felice sintesi, alcuni degli stilemi fondanti del linguaggio dell’artista, che proprio nel metallo e nell’ossidazione, quale segno del trascorrere del tempo, trovano un mezzo espressivo particolarmente incisivo. Il disegno è semplice e, pur richiamando la squadrata composizione della piazza, intende esser essenziale e chiaro e gigantesco come il Presidente: la parte inferiore della lastra è semplicemente liscia, fondamento dell’insieme, supporto e radice – motivo anch’esso caro al linguaggio di Lucchesi -: con i piedi per terra, potremmo dire, ancorata ai propri valori e ad una visione morale e sociale che parte dal basso; in alto si alleggerisce e presenta una lavorazione a traforo che disegna in sequenza serrata le lettere che vanno a comporre alcune tra le frasi più significative di Pertini rintracciate fra le sue interviste, i suoi celebri discorsi suoi scritti più noti: parole di grandissimo valore, parole spese per la democrazia, per la giustizia, per l’idea, per i giovani, per la libertà, per la cultura. Parole di ieri, parole ancora oggi attuali, parole per il futuro. Se pure la presenza di lettere incise possa essere ricondotta ad un filone espressivo, caro ad una parte significativa della ricerca artistica contemporanea, consentendo a Lucchesi di inserirsi in un percorso condiviso che riflette sul concetto di memoria e comunicazione, la composizione a tutto tondo, monumentale e specifica dell’opera, trasformano uno stilema già noto in elemento originale ed altamente significante. Le parole sono declamate senza soluzione di continuità. Alcune di esse sono in acciaio inox specchiato e risaltano, brillanti e sporgenti, rispetto al piano della lamiera. Spiccano nell’insieme qualificandosi quali vere e proprie parole chiave di peculiare pregnanza semantica: Giustizia, Sociale, Libertà, Democrazie, Idea, Uomo, Vita, Coscienza, Cultura, Dignità. Parole potenti, pregnanti, che anche da sole definiscono un mondo, un sistema di principi universali senza tempo e confini, che riassume l’essenza del credo e dell’attività pertiniane consegnata alle generazioni future.

Nel loro suggestivo contrasto cromatico si elevano ad elementi eterni, preziosi, per l’alto valore del tema che rappresentano. Non solo. Il monumento ha una collocazione atipica, essendo posizionato ortogonalmente rispetto al fronte principale della piazza. Questa peculiarità, oltre a sottolineare il volume dell’opera sottraendola all’ambiguità di una lettura bidimensionale del monumento, è un invito alla sosta e alla lettura meditata, ma è anche un artificio che consente di amplificare, vera e propria eco visiva, la potenza semantica dell’opera. Il sole l’attraversa e le iscrizioni vengono proiettate in positivo sul suolo, ruotandovi intorno: l’ombra è uno stilema ricorrente nelle opere di Lucchesi, vera e propria metafora dell’interiorità ed anche in questo caso costituisce parte integrante del monumento. L’ombra, che certifica l’esistenza di ciò che proietta, sostanzia al suolo, a tutti, la concretezza del pensiero di Pertini, espresso tramite le parole – e palesato nelle azioni – e ne amplifica come una eco il valore. Come in un concerto figurato, il solido e fisico acciaio declama al contempo, dall’alto della sua autorevolezza, i principi cardine del suo messaggio, che, quali perle incorruttibili, brillano sotto i raggi del sole e della verità, oggi e per sempre.

Letizia Badalassi

L’attesa
di Letizia Badalassi

 

La paura del contagio. L’isolamento. Lo spazio ed il tempo compressi del mondo contemporaneo che improvvisamente si dilatano, si rarefanno, rallentano sino a bloccarsi in una sorta di metafisica sospensione, dove l’attesa diviene una componente essenziale del quotidiano: così, una lunga, interminabile, rarefatta fila di persone e carrelli in prossimità di un qualsiasi, lontano supermercato diviene emblema di una nuova condizione dell’essere, ai tempi del Coronavirus. Il tempo veloce della spesa compulsiva diviene lento, immobile, essenziale, la frenesia iperattiva diviene lentezza, lo spazio multidirezionale diviene unico, grande e al contempo ristretto nel raggio della propria ombra.

Ognuno è solo, sospeso e isolato dal mondo; inganna il tempo, chiudendosi nei propri pensieri o affidandosi allo smartphone, imprescindibile strumento che riesce a concretizzare virtualmente il bisogno di socialità. Fuori dal tempo e dallo spazio nella propria postazione, riscopre apprezza o sente più intensamente gli aspetti più semplici de essenziali dell’esistenza: il valore di ciò che conta, gli affetti, l’ineluttabilità della vita, la piccolezza dell’essere umano e la grandiosità della natura, l’effetto rigenerante e terapeutico dell’arte in generale.

L’isolamento e l’attesa divengono così anche stimoli al pensiero e alla creazione: gli scatti rubati dal vivo, dalla ugualitaria postazione dell’artista in coda, si traducono in vibrante segno grafico, che fa risaltare il bitume diluito sul fondo candido quasi abbagliante della carta, senza inizio, né fine. Un’icona cogente, essenziale e profonda della contemporaneità nella nuova dimensione del Coronavirus.

Letizia Badalassi

Il cervo e la prostituta
di Sabrina Agonigi

 “Vago attraverso i giorni come una puttana in un mondo senza marciapiedi”.
[Emil Cioran]

Esterno giorno, primavera 2020.

Un drone sorvola le strade deserte limitrofe alla città. Nel silenzio dell’inquadratura si stagliano lontane sull’asfalto due figure, una prostituta e un giovane esemplare di Cervo Nobilis. La telecamera li osserva fronteggiarsi, quasi incuranti l’una dell’altro, speculari nel loro valore simbolico. Grande assente è l’uomo che, confinato nel suo perimetro di sicurezza, veicola all’occhio del dispositivo elettronico la possibilità di vagare in territori a lui interdetti dove può anche capitare di spiare un incontro in altri tempi irrealizzabile.

Sabrina Agonigi

In the box 2019
Capovolgere il distacco
di Nicolas Ballario

Tutto sta nel saper fare di un’assenza, una presenza.

Perché il desiderio è il peggiore compagno di viaggio per l’essere umano, è l’indicatore di una mancanza: c’è tutto il senso dell’infatuazione verso uno stato d’animo che c’era e non c’è più, o forse non c’è mai stato, in questi lavori in cui le forme diventano personaggi, i colori si fanno racconto, il materiale è paesaggio. Ed è incredibile vedere come nelle opere di Gianni Lucchesi l’apparato umano si faccia teatro, alzando il sipario su pulsioni che fanno sembrare l’artista sincero e bugiardo allo stesso tempo.

E siccome è nell’esaltazione delle differenze che si manifesta il lessico dell’artista, vediamo che tanto più una cosa a Lucchesi pare contradditoria, tanto più definita s’ingegna che venga riconosciuta, costringendoci a essere cavie di un suo esperimento: la reazione provocata dal guardare, dall’occhio, è più forte di quella generata dal sapere? Se sì, il cortocircuito estetico di vedere la radice di un albero chiusa in una stanza, o la frattura di un osso trattata come cimelio, non ci darà fastidio.

E come per molti artisti che fanno della relazione il punto focale del loro linguaggio, anche per Gianni Lucchesi l’aspetto tattile dell’arte è molto importante.

Però, attenzione, lui sa che le sue sono opere delicate e che non può farle toccare da chiunque, e riesce allora a creare una sorta di tattilità dello sguardo: le sue straordinarie creazioni ci parlano del legame e di una visione di un mondo di relazioni e a vederle sembra quasi di averle in mano.

E con quei piccoli omini a me non sembra solo di poter interagire, ma credo di averli sul mio corpo dentro e fuori, sulla testa, nel cuore, nel cervello, nei reni, nel fegato, sulle spalle e sulle ginocchia. Quel cubo sono io e le pose di quelle miniature sono il mio sentire, che si manifesta ipocritamente diverso dall’interno all’esterno.

Però, attenzione, l’inganno non riguarda solamente la relazione con l’altro, ma anche quella con noi stessi.

Si può mentire persino in sogno, che è il momento in cui perdiamo il controllo dei sensi, quindi figuriamoci quando abbiamo la lucidità del pensiero. E allora non cadiamo nel fraintendimento che quella di Lucchesi possa essere a tratti una pittura astratta e in altri un’arte figurativa, perché non può essere catalogata: non c’è differenza tra le forme che ricordano l’informale Franz Kline e i modellini che ci fanno pensare alle teche dei fratelli Chapman, perché è tutta un’urgenza espressiva che gli serve per rompere un silenzio del quale non farebbe a meno, se non fosse per l’imbarazzo che proverebbe a sceglierlo come strada.

Forse staremmo tutti meglio se insegnassimo ai bambini che non solo è possibile disegnare le persone, ma anche i sentimenti e le relazioni. Sarei felice di vedere Gianni Lucchesi in cattedra e credo che la sua materia potrebbe chiamarsi “punti di vista”, perché scardinare una conoscenza radicata è difficile e solo l’arte è in grado di farlo. E se spesso nel panorama contemporaneo si porta come punto di forza di un’artista la sua risolutezza, il suo essere pronto a qualunque cosa, a me piace che invece Lucchesi sia “indeciso a tutto”, perché ha capito che le nostre storie sono i nostri orti, ma anche i nostri ghetti. Il vissuto è il posto dove coltiviamo la nostra individualità, ma anche un muro che ci chiude in convenzioni, in obblighi, in censure e autocensure.

Mi ha raccontato che da ragazzino aveva una professoressa che dopo l’analisi del testo costringeva i suoi allievi a fare un grafico di ciò che avevano letto e mi viene da pensare che la parola trauma può essere vista in positivo. Bill Viola quando aveva solo sei anni, mentre giocava con i cuginetti è caduto in un lago. Non sapeva nuotare e mentre era immerso nell’acqua, o meglio mentre stava affogando, spalanca gli occhi e anziché andare nel panico ammira le forme della luce che si infrangono nel lago, i raggi di sole che scendono sott’acqua e illuminano quel paesaggio sotto la superficie. Per fortuna lo zio se ne accorge, appena in tempo, e lo salva. Ma quell’esperienza segnerà per sempre la vita di Viola, che da quel momento avrebbe cercato di riprodurre con le sue mani quel panorama poetico e intimo che aveva vissuto per una manciata di secondi.

Ecco Gianni Lucchesi ha avuto forse un trauma più soft (solo perché ha talento: se una professoressa avesse tentato di farlo con me, che non so tenere una matita in mano, probabilmente non sarebbe più tra noi) e questo lo ha segnato spingendolo a osare fino a suggerire l’inimmaginabile. E siccome è nella ricerca che si trova il senso dell’essere vivi, Lucchesi sta inseguendo probabilmente una via che lo porti alla pazzia, in modo da poter dire tutto, che è poi il non dover dire più nulla.

E quella sua ricerca continua di intrecci emotivi e viscerali, di insofferenza tra materiali e forme, di contatti tra sagome e contiguità di atteggiamenti, di relazione tra profili e legami tra impulsi, altro non è che il tentativo di colmare un vuoto, di riempire una casella della sua vita che ancora non riesce a definire. Insomma, di capovolgere un distacco. Perché tutto sta nel saper fare di un’assenza, una presenza.

Nicolas Ballario

Gradienti 3D 2019
Teatro del Silenzio – Lajatico
di Ilario Luperini

Incagli dell’altoforno di Piombino. Ecco l’origine di queste sculture di Gianni Lucchesi. Artista pisano, classe 1965, con una consistente carriera alle spalle che lo ha fatto conoscere in tutta Italia e anche oltre. Sono scarti di produzione: quando il meccanismo produttivo s’inceppa, nascono queste impensabili forme. Lo hanno subito affascinato: li ha presi, li ha tagliati, li ha personalizzati. Elementi in ferro pieno privi di giunzioni o saldature. L’uso del ferro, con le sue varianti cromatiche dipendenti dall’azione del Tempo che, nel suo perenne fluire, penetra e trasforma, è da sempre una cifra stilistica di Gianni Lucchesi.

In questa istallazione: due sinuose coppie in stringente dialogo, separate, al centro, da un elemento a se stante. Lucchesi ne ha valorizzato le avvolgenti volute. Le coppie cercano un contatto, evidenziato dai terminali dorati di ciascuna. Un contatto possibile, ma di difficile attuazione. L’entità centrale si erge a elemento di equilibrio. Nessun significato recondito. E’ l’Uomo di fronte alla complessità del suo mondo interiore: affascinanti traduzioni plastiche di un pulsante stato emotivo, sculture che rivelano lo stretto rapporto che in Gianni sussiste tra atto creativo e variare delle emozioni, delle suggestioni, dei pensieri, sempre in tensione, mai pacificati. Da qui il titolo: Gradienti 3D, elaborazioni in termini tridimensionali di entità la cui carica emotiva varia di momento in momento, al variare delle condizioni soggettive e oggettive che incontrano.

Ilario Luperini

Ambienti Interiori
Palazzo Tupputi, Bisceglie Primavera 2017
Sulle tracce di sé
di Isabella Michetti

D’un tratto la melodia si interrompe.

Sullo spartito, la semibreve della pausa che impone al pianista il sollievo di un profondo sospiro non è che un minuscolo rettangolo disteso a ridosso di un rigo del pentagramma, dormiente. Esile d’aspetto, eppure in grado di occupare per intero il tempo della battuta in cui solitario campeggia, fino a dilagare nelle successive riempiendo quelle e la platea tutta di un silenzio venato di inquietudine e attesa fremente. Sul dissolversi graduale dell’ultima nota che si allontana nell’aria fino a svanire e rarefarsi in memoria, le dita dinoccolate si sollevano lente per dirigersi verso i tasti del suono che segue: senza fretta, con la sicurezza tipica dell’abitudine più caparbiamente allenata. Ed ecco infine irrompere nell’aria un accordo – fortissimo con enfasi. Un accordo dissonante, simultaneità di più intervalli armonici discordanti, forieri di un’impressione di instabilità – anelito d’altrove.

Allo stesso modo, il bianco immenso degli Ambienti Interiori di Gianni Lucchesi è un tempo eterno sospeso e come compresso nell’attimo ultimo di un’attesa apparentemente interminabile, quella che precede il momento terribile e risolutivo di una interazione nuova, della quale si ignorano ancora gli esiti potenziali, né ci si può spingere a prevederli con un’esattezza sufficiente a rendere utile un pronostico. In quell’oceano candido in cui l’occhio è costretto a perdersi e l’animo si fa spirito errabondo sospinto nel suo vagare da una inquietudine crescente, Lucchesi sostiene come un burattinaio appassionato i fili di volumi materici che in virtù di violenti cromatismi emergono dallo sfondo bianco, indecifrabile nulla, fino a distinguersi trovando un posto adatto a sé e un’identità a sé finalmente rispondente.

I suoi segni convulsi si agitano come menadi in preda ad una frenesia irrefrenabile che anticipa la quiete della catarsi, preparandole il terreno: danza di entità opposte che si placherà solo, imprevedibilmente, a contatto avvenuto. Il tratto ancora distinguibile degli schizzi iniziali guida l’occhio oltre l’orizzonte che è proscenio noto e abituale, verso un sommerso che scalpita in attesa di mostrarsi ed emergere da un oblio le cui sbarre non riescono più a trattenerne la foga. Un’indagine audace, intrapresa contravvenendo ai dettami accademici, al buonsenso che talvolta ci salva ma più spesso ci limita. Entità monolitiche solo in apparenza sufficienti a sé stesse interrompono un fluttuare senza meta che si indovina protrarsi da epoche intere in quell’oceano di niente in cui galleggiano. Accettano il disappunto generato dalla constatazione di non bastare a sé stesse ed emergono da un solipsismo stagnante individuando nell’interazione con l’altro, con figure diverse da sé, la possibilità di un’evoluzione la cui urgenza è divenuta stringente.

Nitro e sintetico, olio di lino cotto e resinante: accostamenti azzardati, accordi dissonanti, processi ossidativi dagli esiti sorprendenti. Tonalità arancio e ocra di ruggine. Graffi, che trafiggono la tela e segnano il tempo del tanto atteso contatto, che finalmente si compie: è la definizione di sé che interviene all’esito di una ricerca estenuante e si presenta, imprevedibilmente, nella commistione con l’altro. Un alfabeto di simboli, nell’accezione psicologica di funzioni mediatrici fra inconscio e coscienza: divenire autenticamente se stessi significa aprirsi all’altro da noi che è già dentro di noi. Senza quel confronto, è impensabile un progresso reale dello spirito, il dispiegarsi delle potenzialità insite in ogni vita. Quel sé non è altro che il superamento, da rinnovare senza posa poiché non può darsi una volta per sempre, del conflitto inevitabile fra lucidità e istinto, fra coscienza e sommerso. A tal fine è essenziale recuperare gli archetipi, simboli che rappresentano esperienza dell’umanità intera, tappe della sua storia. Memoria comune, sedimentata in un inconscio collettivo che condiziona l’atteggiamento del singolo nei suoi rapporti con l’altro. Ecco il progresso autentico: l’ossessione dell’artista può sciogliersi nella quiete del momento contemplativo. L’incontro dopo tutto è divenire – tanto che non può darsi un divenire autentico senza interazione e dialettica, senza confronto e contrasto. La prima innegabile apparenza, quella di sperimentazioni astratte e assolutamente scevre da propositi di rappresentatività del reale, presto scompare. Poiché si rivela un intento molto diverso: esattamente come il corridoio in cui si prolunga la cella di un dolmen ci conduce oltre la soglia dell’ombra, verso strati di storia e tradizioni che riposano custoditi fra monoliti di pietra e suppellettili sepolcrali, l’intento di quel segno è suggerire allo sguardo un percorso introspettivo coraggioso oltre i confini di un mondo a metà del quale rischiamo di contentarci, spaventati dalle tenebre e dall’idea di non poterne riemergere più. Lucchesi accetta il rischio di smarrirsi, per sperimentare tutte le possibilità del reale, gli esiti potenziali e non ancora tracciati di una dialettica aperta ad ogni incontro. Le sue figure, materiche e quasi tangibili a dispetto della piatta bidimensionalità del supporto, si cercano l’un l’altra nel mare sterminato che copre del suo candore tutto quanto lo spettro della tela e complice il riverbero della luce si reitera al di fuori di essa, sulla parete che la sorregge e oltre i confini angusti dello sguardo.

Tutto parrebbe compiuto: eppure la parola fine non potrebbe essere meno appropriata. Al punto che la danza seducente di quegli elementi tanto difformi sembra protrarsi oltre il momento eminentemente creativo, riverberandosi nel tempo. Il segno frenetico di Lucchesi, ricordo di bozze primordiali e disegni che sulle pitture più ampie vengono soltanto rimaneggiati e mai del tutto rinnegati, conduce lo sguardo lungo la linea di terra e d’un colpo sotto la stessa, oltre la superficie delle cose alla scoperta di radici insospettabili e illuminanti.

La sinfonia proseguirà. Non tarderanno ad intervenire altri suoni: movimenti diversi e probabilmente contrastanti coi precedenti. Si daranno altri ritmi e tempi e tonalità. Uomini nuovi prenderanno posto sulla scena, e sceglieranno di sé – se avranno l’ardire di osare l’intentato – scrivendo altri capitoli della storia del mondo, pur nel solco di tradizioni di ieri e temi già eseguiti e ancorché costretti nei confini ampissimi e però invalicabili di quella tela immacolata che è il destino di ognuno.

Isabella Michetti – ISMI Arte Contemporanea, Viareggio (LU)

Ambienti Interiori  Galleria Il Lepre – Piacenza 2017
di Antonella Lembi

Scelte diverse, ma con un unicum che ne è il medium ispiratore: la ricerca di un sé interiore che, quando lo si ricerca per forza lo si trova e lo si fa emergere. E Lucchesi, insieme alle sue creazioni, va alla ricerca di luoghi evocativi che all’incedere della ricerca possono imprimere un’accelerazione e uno sfondo scenografico appropriato e coerente con la ricerca stessa.

Un filo, per il segno grafico o per la pittura, è un confine tra il sé e l’esterno con tutto quello contiene libero anche di contagiarsi e collegarsi su piani diversi come accade negli “Ambienti interiori” nei quali ricorre il filo che segna il passaggio. E i luoghi entro cui far prendere vitalità alle sue opere sono scelti con cura. Luoghi dallo spessore evocativo e carico di fascino pennellato dalla natura o dalla mano dell’uomo non importa. Purché abbia quella forza suggestiva di inglobare la nuova arte, la nuova interpretazione del sentire umano.

E, lo vedi, è la vita  – Spazio PME 2006
di Silvia Panichi

Grandi spazi chiari e lucidi fatti di carta perfettamente aderente al supporto,  su cui si staglia un quadrato che diventa irriconoscibile per il suo protendersi verso il cerchio in cui è inscritto: e là, dove il perimetro del quadrato tocca la circonferenza, la tensione fra i due elementi si manifesta nella fuoriuscita di essenza: e questa linfa si concentra per effetto della pesantezza del fluido, e così facendo racconta come in un attimo ci si impossessi della vita e la vita di noi.

Sin dall’antichità il quadrato è il simbolo della terra, dei suoi spazi più sacri, e rappresenta, con mirabile sintesi,  l’immagine umana  armonicamente inserita nel complesso del mondo sensibile. Il cerchio, nel suo essere senza inizio e senza fine, è invece allusivo del cielo, dell’infinito, del tempo. Un quadrato che tende a trasformarsi in circonferenza cerca, nell’adesione al suo complementare, una scintilla vitale, la sola che può trasmettergli energia, calore, tensione.

Gianni Lucchesi ricerca da anni, attraverso lo studio e la sperimentazione, moduli espressivi che simbolicamente sintetizzino, pur senza riduzioni concettuali, le infinite possibilità di relazione tra gli esseri viventi, i contatti con la materia, la tensione verso l’immateriale.

Attorno a questo nodo concettuale egli varia e rinnova ancora il suo linguaggio dopo la serie di opere confluita nella mostra intitolata “gradienti”. Nella serie più’ recente delle sue opere, ha operato l’ulteriore passaggio dai due quadrati, al quadrato unico che risolve in sé il meccanismo di adesione e ossidazione. Ha continuato a limitare l’uso del pennello intervendo per colata, con olio di lino cotto mescolato al resinante, attraverso una simulazione quasi iperrealistica dei punti rugginosi.

Se le caratteristiche del non colore e dell’essenzialità geometrica hanno indotto a collegare il suo lavoro con l’astrattismo americano degli anni ‘50, Gianni dubita di questo riferimento, non riconoscendosi in un’estetica antifigurativa, così come il suo operare per riduzioni simboliche non ammette espressioni spontanee e tanto meno la casualità del gesto pittorico; al contrario, elementi come la ruggine o le colature sono ottenute con sperimentazioni ripetute più volte così da eguagliare l’effetto progettato.

L’impatto con queste nuove opere risulta coinvolgente, perché la forma circolare ci cattura al suo interno e replica al nostro sguardo per effetto del riflesso lucido sulla sua superficie; le leggere variazioni nel passaggio dall’uno all’altro quadro ci tengono incatenati nel percorso e danno spazio a una riflessione personale, che potrebbe anche trasformarsi in semplice acquisizione di forme, ma che così facendo penalizzerebbe un percorso di ricerca denso e peculiare.

Silvia Panichi

Gradienti   2007
Gradienti del desiderio
di Aldo Iori

Gianni Lucchesi è sempre stato parco a mostrare il proprio lavoro ad altri o ad un pubblico, soprattutto negli ultimi anni. Chi lo conosce, e vide le sue opere esposte nell’ultima personale, nota oggi come, nel denso tempo che separa i due eventi, sia evidente la presenza di una profonda e sensibile riflessione. Io non conoscevo Gianni né il suo lavoro. L’incontro, non casuale, e la conoscenza della persona e del lavoro negli ultimi mesi mi induce a ricercare e indagare le ragioni del suo pensiero e la sua manifestazione nelle opere più recenti.

La formazione non accademica, la frequentazione per lavoro dell’arte storica, la contiguità con eventi artistici fondamentali della contemporaneità uniti a letture ed esperienze personali lo inducono a definire un ambito del visibile che fornisce all’osservatore inedite soluzioni.

L’opera come sempre parla di ciò che è invisibile tramite una materia che appare allo sguardo in forme evocative. Gianni Lucchesi modifica il suo profondo interesse per la componente esoterica e simbolica dell’opera, presente nei lavori degli anni passati, a favore di una nuova attenzione che abbia come oggetto gli eventi minimali posti alla radice del momento epifanico del pensiero visivo. Spiegare ed inserire un aspetto vagamente didascalico non è più necessario. L’abbandono e l’oblio, di ciò che prima era sostanziale ma anche di ciò che può condurre alla distrazione, sono frequenze sulle quali condurre un differente ascolto di sé e di ciò che l’opera suggerisce. Le domande non necessitano più di risposte poiché si svela l’inutilità di tale modalità processuale. È la stessa opera che comanda e richiede di essere condotta dove essa stessa indica, a poco a poco, con una tensione che non può permettere, pur nella pratica del dubbio, passi falsi o momenti consolatori.

Il disegno accompagna da sempre il rapporto che Gianni Lucchesi ha con l’immagine. Esso diviene l’esercizio quotidiano, il luogo di un proprio rispecchiamento, l’intimo annotare non condotto sulla visione esterna a sé, piuttosto su di un ‘sentire’ gli eventi, e il nuovo elemento portante della ridefinizione e costruzione di un proprio universo iconico. Il segno si struttura come un anomalo sismografo di un’interiorità che conduce necessariamente all’azzeramento della forma e all’essenzialità di un narrare, in anemici tratti, l’intensità e le tensioni che si producono nell’incontro tra due entità differenti che anelano a ritrovare una possibile unità perduta. Lo spazio del foglio è la stratigrafia verticale di un sopra e di un sotto e l’orizzonte la linea di terra che segna la separazione tra due diverse condizioni del sentire. In questa semplificazione sono posti due elementi contemporaneamente doppiamente convergenti che tendono ad un contatto sia in una parte inferiore, forse simbolica di un inconscio, sia in una superiore forse più legata ad uno stato di coscienza e di reciproco guatarsi. I rimandi sono ad una tradizione non solo europea, che Gianni Lucchesi conosce tramite un’esperienza diretta e anche attraverso la letteratura artistica, per la quale le forme segnano il fragile passaggio dal figurativo ad una condizione in cui il termine astratto diviene insufficiente e necessita di continue ridefinizioni.

L’arte non possiede condizioni che la vedano non rivolta all’astrazione. Le opere del secolo scorso e le parole degli artisti mostrano, in maniera più diffusa che nel passato, la possibilità di un totale affrancamento da un’immagine tratta dal reale visibile. La prepotenza di un universo dominato dalle immagini e dai mezzi di produzione di una virtualità illimitata  pone l’osservatore in una condizione d’indifferenza rispetto al loro continuo apparire e pone la necessità di un suo più attento atteggiamento critico nei confronti dell’opera d’arte. In chi guarda è sempre presente la coscienza che l’oggetto di cui l’arte parla non sia mai ciò che si vede e che la divinità rappresentata dall’idolo sia sempre più lontana e la sua condizione di esistenza sempre più dubitativa.

Nei disegni e nelle vaste pitture di Gianni Lucchesi la definizione di una forma e di una ‘situazione’ spaziale diviene solo un pretesto formale per indicare e suggerire stati di un oltre non altrimenti per lui pronunciabile. In contemporanea del disegno, la cui dimensione indica una controllata corporeità circoscritta al movimento del braccio sul foglio, egli realizza delle pitture di grandi dimensioni. Il supporto è sempre il foglio che poi viene intelaiato e reso elemento volumetrico distante dal supporto murario. La modalità esecutiva è simile a quella grafica in quanto la pittura viene principalmente eseguita su di un piano posto in orizzontale. Questo comporta uno sguardo verticale dell’autore che richiama l’osservazione scientifica di fenomeni che avvengono su di un piano di laboratorio; a questo si lega anche l’uso dell’ingrandimento come se l’osservazione avvenisse tramite una gigantesca lente o un microscopio. Mentre nel disegno lo spazio è minimo, quasi una piccola finestra su di un piano, che lo sguardo può cogliere nella sua totalità, la vastità del foglio su cui la pittura si distende pone l’autore in una condizione di totale immersione in uno spazio non percepibile nella sua interezza. Il vasto bianco intonso che contraddistingue i confini del foglio indica la possibilità di una continuità spaziale illimitata secondo la definizione propria della pittura astratta statunitense del recente dopoguerra. A lavoro concluso, come in altri casi anche dell’arte antica, si attua una rotazione di novanta gradi e l’opera è offerta allo sguardo in una situazione contemplativa verticale tradizionale. Delle situazioni ‘fenomeniche’ presenti nei disegni è scelto solo un particolare poi fortemente ingrandito in una nuova scansione sagittale che analizza l’essenzialità dell’evento del rapporto e dell’incontro tra le due parti.

La scelta del termine gradienti, utilizzato per il titolo della mostra, diviene indicativo e aiuta a comprendere l’ambito circoscritto dalla sua pittura. Esso è usato in fisica, geotermica, meteorologia, cromatologia e in altri settori della speculazione scientifica e tecnica per indicare un rapporto tra due entità. Forse il suo uso, sia per chi lo impiega nel proprio lavoro sia per chi si occupa di arti visive, può non apparire consono poiché il termine non appartiene al campo dell’arte. Tuttavia è scelto per richiamare l’attitudine sopra accennata di uno sguardo ‘scientifico’ sul fenomeno e per indicare una sorta di astratto coefficiente di tensione tra le due parti, nelle quali le opere sono strutturate, o di misuratore delle differenze e delle comunanze che si insediano nel costituirsi di un rapporto.

L’immagine comunque narra. Due quadrati modificati nei lati che da rettilinei divengono arcuati sono giustapposti nello spazio della rappresentazione: dal razionale all’irrazionale forse o viceversa, anche. Essi sono quasi tangenti tra loro su di un lato ed è proprio nello spazio della possibile tangenza che la pittura si manifesta nella sua corporeità cromatica. Ogni essere possiede un’aura fuori di sé, in condizione prossima al proprio confine, ed è in questo spazio minimo, non misurabile a priori, che ha luogo l’evento dell’incontro, quasi a creare uno spazio osmotico immateriale di scambio relazionale. Da un piccolo germe nasce la positiva contaminazione di una parte con l’altra.

L’artista nelle sue conversazioni introduce il termine di ‘somatizzazione’ dell’evento, ovvero di reciproca influenza di una sfera del sentire su di un’altra dell’essere. La sua pittura vuole evidenziare questo e lo fa con modalità che ricordano i processi di ossidazione presenti in natura. Il richiamo alla pittura informale, alle superfici metalliche di molta arte del Novecento esposte alle modificazioni del tempo è evidente. L’azione del tempo è sostituita qui dalla perizia pittorica dell’autore che, con una valenza mimetica molto accentuata, ferma il processo, altrimenti inesorabile, ad un attimo dilatato e ad una condizione di assolutezza estetica che l’opera richiede fin dal suo apparire. Il riferimento ad una proporzionalità aurea è presente soprattutto nelle grandi superfici dove è indicata solo la condizione dell’abisso del confine. Nello sprofondamento spaziale la pittura mantiene salda la propria condizione di superficie ad indicare comunque la valenza di soglia tra un materico visibile e un immateriale invisibile. Questo conduce l’artista ad accentuare la condizione metafisica della pittura e a sottolineare la propria volontà a indicare il ‘raggiungimento di un’armonia tra gli atteggiamenti amorosi della forma e del contenuto’ come lui stesso li definisce. L’uso desueto di tali termini in pittura sottolinea la sua discendenza da un universo umanistico platonico mediato attraverso la grande tradizione pittorica italiana anche contemporanea. Nelle sue opere egli rivela di nutrire una profonda fiducia nelle possibilità dell’arte di essere nuovamente luogo possibile del manifestarsi di tensioni proprie della sfera del desiderio inteso nella sua duplice sensuale unità intellettuale e corporea. In questi anni affollati da un uso sconsiderato delle tensioni tra le pulsioni dell’animo umano e l’immagine, tale posizione assume valenze eretiche anche perché coniugata con una forte attenzione alla condizione etica dell’arte. Le grandi superfici pittoriche richiedono più che mai all’osservatore una presenza relazionale ed un’attenzione derivata da un’assunzione di responsabilità critica. Esse nel loro apparire dischiudono uno spazio pittorico nel quale si evocano stati della condizione umana e si formalizza la possibilità di un fragile equilibrio e di una temporanea armonia tra ciò che la lontana linea dell’orizzonte del nostro pensiero separa.

Un fiume di luce inondava la navata quasi fosse, come in un romanzo di Boris Vian, il liquefarsi dei fotoni dell’iride. Alzai lo sguardo per ammirare la fonte del fenomeno e l’iconografia si distese al mio sguardo in una moltitudine di frammenti trasparenti. Notai per la prima volta che a sostenere l’immagine e a stabilire il generale equilibrio era il sottile confine tra una parte e l’altra. Pur nella sua necessaria matericità metallica tendeva a essere invisibile allo sguardo. Un fruscio mi distrasse e nella luce policroma vidi volteggiare qualcosa che si pose dolcemente sulla pavimentazione cosmatesca. Riconobbi una piuma candida di Eros.

Aldo Iori, tra i due zeri del duemilacinque7

Epifania della trasformazione 2005
di Sabrina Agonigi

C’è un luogo, situato non lontano dalla stazione ferroviaria di SanGiulianoTerme, dove l’arte contemporanea trova spazio per presentare gli esiti della ricerca, per sua propria natura sempre in divenire. Si tratta di un’ampia porzione del loft che ospita la sede di ACME-ZERO4, ditta che opera da anni nell’ambito degli allestimenti museali, che il proprietario, Rodolfo Cozzani, ha messo a disposizione dell’associazione Spazio Dinamico P.M.E.Inaugurata la stagione 2005 nel marzo scorso con una selezione di opere di Vladimir Skoda, nello spazio espositivo ricavato dall’ex falegnameria industriale si sono succedute poi le personali di Mino Maccari e di Mary Ann Judge. In questi giorni, fino al 23 ottobre, ad essere ospitato è la volta di Gianni Lucchesi, con la sua mostra ‘Gradienti’.Il filo rosso che unisce idealmente questi artisti che Spazio DinamicoPME propone, è rintracciabile quindi nell’alto profilo della loro sperimentazione capace di contraddistinguersi per validità anche in ambito internazionale, indipendentemente dal luogo nel quale essi operano. Cresce la possibilità di confrontare le esperienze, gli esiti del lavoro di artisti molto distanti, apparentemente, traloro. Vladimir Skoda e Gianni Lucchesi in questo caso: ambedue hanno incentrato la loro ricerca sulc oncetto di  trasformazione della materia, che necessariamente implica lo studio delle variabili spazio-tempora-li. E se abbiamo visto il primo cimentarsi con sculture dai grandi volumi e dalle superfici specchiate, ci troviamo ora a fare i conti con la ricerca proposta da Lucchesi, tutta volta a cogliere graficamente l’istante stesso in cui l’incontro instaura un processo irreversibile di trasformazione della materia.

Incontro fisico, chimico, organico,interpersonale. Incontro di corpi o sfiorarsi di pensieri. Tutto ciò che evoca o implica positiva contaminazione, ed è quindi portatore di una possibilità di trasformazione, calami-ta da sempre l’attenzione diLucchesi, sia nel momento stesso in cui questa avviene che nell’istante immediatamente precedente, quando tutte le possibilità sono ancora (forse?) dispiegate e tutti gli esiti sembrano ancora possibili. Ma cos’è che rende ineluttabile l’incontro se non la diversità, la criticità, degli elementi in gioco? E’ qui che entra in campo il concetto di ‘gradiente’ che dà il titolo alla mostra. Il curatore della mostra, Aldo Iori, nel suo intervento di presentazione, motiva con queste parole il titolo prescelto: “La scelta del termine gradienti diviene

indicativo e aiuta a comprendere l’ambito circoscritto della sua  pittura. Esso è usato in fisica, geotermica,meteorologia, cromatologia e in altri settori della speculazione scientifica e tecnica per indicare un rapporto tra due entità. […] è scelto per richiamare l’attitudine sopra accennata aduno sguardo ‘scientifico’ sul fenomeno e per indicare una sorta di astratto coefficiente di tensione tra le due parti, nelle quali le opere sono strutturate, o di misuratore delle differenze e delle comunanze che si insediano nel costituirsi di un rapporto”. Il fondo bianco delle grandi pitture, realizzate su carta industriale, si staglia contro il muro grezzo delle pareti della sala; risaltano, opportunamente illuminati, gli arancione, gli ocra, i ruggine scelti per suggerire la fenomenologia delle attrazioni. Nello spazio dilatato del foglio si fronteggiano due quadrati modificati dai lati arcuati e non più paralleli: è sempre nel punto di tangenza che ha luogo l’incontro, che prende il via la trasformazione. Lucchesi ci mostra il fenomeno da distanza variabile. Facendoci avvicinare, quasi a penetrare la magia del fenomeno, ci offre la possibilità di fissare la nostra attenzione sul particolare, stupirci della sapienza mimetica dispiegata per simulare il processo fisico dell’ossidazione. Scienziati che indagano da vicino il mistero del ‘come’. Eppure appare evidente nell’opera di Lucchesi l’insondabilità del ‘perché’. Le date, che fungono da titolo dei quadri, ci suggeriscono come sia modulata nel tempo la sua “captazione” dell’evento fisico. Scivolo con lo sguardo sull’ampia porzione di superficie bianca di ’20 Luglio’ dirigendomi  verso quell’istante in cui, sapendo cogliere la scommessa offerta dal riconoscimento del nuovo, del diverso da me, svelerò an-che il mistero della quadratura del cerchio e della cerchiatura del quadrato..

Sabrina Agonigi